Edoardo Castagna, Avvenire 28/1/2014, 28 gennaio 2014
ARABISH, IL CODICE SEGRETO CHE AGITA LA RETE
È “arabo” anche per gli arabi. Nel senso che nemmeno loro lo capiscono. È stato battezzato “arabish” in assonanza con “spanglish” (la commistione tra spagnolo e inglese dei latinoamericani negli Stati Uniti) ed è una particolare modalità di scrittura dell’arabo con i caratteri dell’alfabeto latino. Talmente particolare che gli stessi arabofoni non sono in grado di comprenderlo, se non dopo averlo imparato. «Si tratta di una modalità di scrittura – spiega Daniele Baglioni, ricercatore dell’Università di Venezia che domani e mercoledì ospita la due giorni di studio “Contatti di lingue – contatti di scritture” – nata con i nuovi media: chat, email, sms, social network. Con i computer è possibile scrivere in caratteri arabi, ma è più faticoso; i telefonini, invece, spesso non prevedono affatto questa opzione. Così le giovani generazioni si sono dotate di un metodo di scrittura adatto ai nuovi media».
Il risultato a prima vista disorienta, e non solo chi non conosce l’arabo: una serie di lettere, cifre, segni di punteggiatura e altri caratteri. In un certo senso, una versione ancor più criptica degli xkè o dei c6? (rispettivamente, “perché” e “ci sei?”) dei nostri adolescenti, che sono semplici abbreviazioni. Qui si tratta di un intero sistema di scrittura, al tempo stesso generazionale, locale e perfino politico. Legato ai nuovi media, è fatto per la comunicazione veloce che circola nella Rete in modo informale e “privato”, anche se mai come in questo caso il termine non ha nulla a che vedere con la segretezza. «L’arabish – prosegue Baglioni – è stato ampiamente utilizzato nel corso delle Primavere arabe: era in questo modo che i manifestanti si davano convegno per le adunate in piazza, coordinavano i movimenti, scambiavano informazioni e valutazioni». Non perché ci fosse una precisa volontà di depistaggio, ma semplicemente perché quello era il modo ormai naturale di comunicare da parte di ragazzi “nativi digitali”.
A rendere ancor più ardua la comprensione dell’arabish c’è poi la differenza dei dialetti. La parola “arabo” è per certi versi più un contenitore che una definizione precisa. Da un lato indica l’arabo classico: quello del Corano, della religione, della lingua scritta e della televisione. Dall’altro lato non c’è un lingua, ma un’intera famiglia linguistica. Dal Marocco all’Iraq, l’arabo parlato si è, nel corso dei secoli, profondamente modificato, per esempio acquisendo spunti dalle lingue locali pre-arabe o da quelle dei popoli con i quali si è via via venuti in contatto. Di fatto, un tunisino e un siriano non si capirebbero, se parlassero ognuno la lingua che usa abitualmente a casa. Per interagire, devono ricorrere all’arabo classico.
Ma chat e affini sono sono rivolte ad amici e famigliari, con i quali si è soliti comunicare nel proprio dialetto: ed è questo l’idioma che il sistema di scrittura arabish ha volto in caratteri latini.
La traslitterazione dell’arabo classico già varia tra due possibilità: il sistema accademico, rigoroso ma reso complesso dalla presenza di apostrofi, accenti, punti e vari altri segni diacritici, e quello semplificato, più agevole ma impreciso. L’arabish (il nome è provvisorio: viene indicato anche come “aralish”, “arabizi”, “araby”, ...) in parte ricalca le traslitterazioni codificate, in parte innova in modo originale. Per indicare le lettere che non hanno un perfetto equivalente nell’alfabeto latino, a volte ricorre al carattere che le “ricorda” di più, secondo la pronuncia. E quindi il variare dei dialetti comporta anche il variare della scrittura: lo stesso carattere gim , per esempio, diventa “j” in Arabia e “g” in Egitto. Altre volte, l’arabish “ricicla” come lettere quelle che per noi sono numeri, basandosi sulla somiglianza tra la forma del carattere arabo e quella del numero latino: così “3” non è un tre, ma un’acca.
Un ginepraio. Non stupisce quindi che, durante le Primavere arabe, le forze dell’ordine che intercettavano messaggi scritti in questo modo faticassero a orientarsi. Naturalmente anche al loro interno ci sono “nativi digitali”, che davanti all’arabish hanno dovuto trasformarsi in traduttori istantanei. Nemmeno agli islamisti queste licenze linguistiche piacciono. L’arabo, per loro, è la lingua stessa di Allah, che l’ha consegnata agli uomini con il Corano, e come tale non può e non deve essere modificata. Ma le lingue, per loro natura, sfuggono sempre alle cappe che cercano di ingessarle.