Gabriella Greison, Sport Week 25/1/2014, 25 gennaio 2014
FATTO IL QATAR FACCIAMO I QATARIOTI
È il loro Mondiale, quello del 2022. Ma come ospiti, non come terribili padroni di casa. Anche se l’acchiappo è stato rapido, furbo, ben poco sentimentale, il Qatar per il campionato del mondo del post Russia 2018 ha attivato già da tempo e a ritmi da record la sua macchina di lusso per entrare nella storia del calcio universale. E per la prima volta. Certo, dimentichiamoci la nostra concezione di sport, accomodante e latina, e aspettiamocene un’altra, più austera e fredda. Sarà un Mondiale megalomane, a questo ci dobbiamo rassegnare. È il Medio Oriente, bellezza. Piccolo, grigio e ricco. Ma è anche un Paese che vive con una grande incognita: la squadra della nazionale di calcio.
Ora sono qualificati di diritto. Ora c’è da costruirla, la squadra. Una squadra che non c’è ancora, e che dovrà rappresentare per la prima volta il Paese in un Mondiale dopo che in 40 anni di attività internazionale il Qatar ha ottenuto come migliori risultati due quarti di finale della Coppa d’Asia, nel 2000 e nel 2011.
Il problema più grande è trovare oggi 50 ragazzini tra i dodici e i quindici anni (quindi, che tra otto anni ne abbiano una ventina) che sappiano giocare a calcio. Qatarioti, s’intende. In un Paese in cui qatarioti non si può diventare (né lavorando da generazioni, né per reddito, nemmeno sposandosi), perché quella nazionalità è un’élite riservata a pochi, un privilegio. E dove non c’è la cultura del calcio, dove non ci sono genitori che sappiano praticarlo già, e dove non si va a guardare le partite di pallone per quel fuoco che senti dentro. In un Paese con 400 mila qatarioti in totale, come trovi 50 ragazzini che sappiano giocare a calcio? Dov’è la nazionale che scenderà in campo di diritto? Calma. No problem, li senti dire sempre. Ecco, girando per le loro strade, parlando con la gente, osservando la macchina di lusso che si sta attivando, capisci che la loro idea è di comprare pure quella.
Entri a Doha, la capitale del Qatar, e ti accorgi che il calcio è una cosa strana, lontana, fatta di immagini griffate, flash a effetto. Se prima il futuro te lo dovevi immaginare, da loro esiste, c’è. Partendo dalle strutture, fino ad arrivare agli studi scientifici su come campioni si diventa, passando per la medicina e i nomi degli allenatori che riescono a far atterrare sui loro campi, anche solo di passaggio. Ci sono le più grandi squadre, dal Real al Psg, dalla Juve all’Arsenal, al Barca, che hanno piazzato in questi mesi le loro sedi a Doha: uffici, punti di ritrovo per i tifosi, e soprattutto scuole calcio con i loro colori. Ci sono gli stadi che stanno crescendo addobbati con le strutture più avanzate, da centri ricerca a ospedali, a centri commerciali. C’è Losail, la nuova città a 15 km da Doha, che sta nascendo da zero, e deve diventare il punto d’appoggio per il Mondiale: vista dal vivo, e in fase di costruzione, fa paura. È come vedere nascere Milano in Italia, quando esiste solo Roma: con i lavori in corso per rendere la città funzionale alle sole partite di calcio. Con centinaia di operai sempre al lavoro, dalle cinque del mattino alle dieci di sera. Ma poi, soprattutto, c’è l’Aspire Dome.
Dunque, l’Aspire è da immaginare come una navicella di Star Trek grande come un quartiere, in cui c’è tutto. La chiamano Cittadella dello sport, in realtà è qualcosa che non ci sogniamo neanche. Visitata di persona con la coscienza di chi la passione per il calcio ce l’ha davvero l’Aspire mette i brividi. Si trova a ovest di Doha, neanche 8 km dal centro. Alla reception, tutto è top secret. Non rispondono a niente, le informazioni te le devi procurare in altra maniera. Entrando sui campi (13 all’aperto, 2 interni, tutti regolamentari) e facendo domande; salendo nell’albergo The Torch che domina l’Aspire e l’intera città, con i suoi 300 metri d’altezza divisi in 80 piani, collegato poi nei sotterranei con l’ospedale (l’ospedale più importante del mondo, naturalmente, con i migliori medici pescati in ogni parte del pianeta a seconda delle esigenze) e il centro studi di ricerca (con ingegneri e fisici stranieri, che alla prima necessità volano lì, dietro lauto pagamento). Quando entri nella hall dell’albergo hai subito l’iPad personale per fare tutto in remoto (anche le valigie!), e puoi scendere direttamente negli spogliatoi dei campi. Tutto costruito con un unico obiettivo: scortare il Football Dream qatariota fino al 2022. Sfruttando anche la sede in Belgio, in cui la nazionale del Qatar si è spostata per molto tempo, per giocare il loro campionato e crescere, grazie a un regolamento più aperto sul numero di extracomunitari (il Kas Erpen è la squadra che milita in Jupiler League, di proprietà dell’Aspire, formata da due qatarioti e dieci africani tesserati Aspire); oppure quella in Senegal, che gli permette di scovare talenti da espatriare al primo sentore che si tratta di futuri campioni.
Come fa Messi a giocare a calcio così? Per capirlo basta chiamarlo, ospitarlo una settimana al The Torch, e lo si studia. Ribéry come corre? Lewandowski come calcia il pallone? No problem, basta farli venire all’Aspire qualche giorno, i segreti si comprano. Se la squadra del Borussia diventa forte per via del suo Footbonaut (la gabbia che Jurgen Klopp usa per gli allenamenti), quella che crea campioni che poi il Bayern compra a prezzi esorbitanti, perché non averla? No problem, basta far arrivare gli ingegneri e i fisici che l’hanno ideata all’Aspire, e ne costruiscono una identica, ma cinque volte più grande. E via così. In questi mesi, tutti, ma proprio tutti (da Pelé a Maradona, da Ronaldo a Iniesta, a Lippi), vengono all’Aspire. Per farsi studiare o per elargire insegnamenti. Parli con José de Moura, l’ex calciatore brasiliano, ora uno degli allenatori dei teenager qatarioti, e ti racconta tutto questo: «Qui alleniamo i bambini con l’unico obiettivo di farli approdare alla nazionale del 2022». La conferma poi, ce l’hai da Michel Salgado: («Loro vogliono quello che sappiamo noi, quindi lo comprano»), da lan Rush, da Robbie Fowler, da Capello («Venire a parlare a loro di calcio è come creare dal niente un gioiellino prezioso»), da Ancelotti, da Guardiola (l’ultimo a far visita all’Aspire, a metà gennaio, che ha detto: «È come guardare come sarà il futuro»), tutti incontrati di persona da queste parti.
E i bambini qatarioti cosa capiscono di tutto questo? Niente. Il calcio è un gioco. Difficilissimo da praticare bene, però i grandi campioni sono lì alla portata. All’Aspire li incontrano tutti, dagli 8 anni in su, e non sono tanti, a malapena si arriva al centinaio. I bambini vengono gratis dopo la scuola: ore 16 l’appuntamento, pagato dallo Stato. Nessuno di loro conosce ancora i fondamentali, ma tutti hanno la certezza di far parte della nazionale che nel 2022 scenderà in campo contro le potenze mondiali del calcio. E per le riviste a diffusione araba, fanno già foto in posa da campioni.
In città, a Doha, intanto, riproduzioni a diverse grandezze della Coppa del Mondo sono esposte ovunque. In tutti i negozi. Di fianco ai disegnatori da strada. Ai tavolini di chi fuma il narghilè (chiamato da loro la shisha). Sui disegni delle magliette, o come murales. Peccato nessuno sappia calciare uno di quei palloni messi apposta nei vicoli del suk. Per l’Economist è il posto del pianeta dove si vive meglio. Per chi arriva con la passione per il calcio è un posto strano: dov’è la nazionale da affrontare, dov’è la storia che ha fatto grande questo sport? Calma, no problem, stanno portando con elicotteri e fibre ottiche pure quella. E non importa nemmeno conoscere il nome del loro attuale c.t.