Danilo Taino, Corriere della Sera 25/1/2014, 25 gennaio 2014
UNA QUESTIONE NAZIONALE
La «vicenda marò» non è un fatto di cronaca. È arrivato il momento che il Paese lo consideri per quello che è stato sin dall’inizio: una questione politica che ha rilevanza nazionale. Non sta succedendo: per apatia, rassegnazione, indifferenza, inconsistenza politica. Eppure, si tratta di un caso di estrema importanza per l’Italia. Quel 15 febbraio 2012, al largo delle coste indiane, due pescatori dello Stato del Kerala, Ajeesh Pinku e Valentine Jelestine, furono uccisi: le responsabilità saranno stabilite da un processo, che deve essere giusto, regolare, non condotto sotto la minaccia della pena capitale. Ma Salvatore Girone e Massimiliano Latorre erano in quelle acque e su quella nave, la Enrica Lexie, inviati dalla Marina italiana, assieme ad altri quattro fucilieri. Su una petroliera ma rappresentanti della Repubblica Italiana in missione antipirateria. Non erano contractor , vestivano la divisa della Marina. Il loro caso è una questione che riguarda tutta l’Italia e le sue istituzioni: in discussione c’è l’idea che il Paese ha del suo ruolo nel mondo.
Non è problema di orgoglio nazionale violato e di muscoli da mostrare. Sottovalutare la vicenda e non dedicarle il massimo impegno unitario sarebbe la conferma che abbiamo perso i nostri punti di riferimento internazionali, che non rispettiamo noi stessi e le nostre istituzioni. E un’Italia che non sa come stare nel mondo è destinata a essere vittima di qualsiasi alito di vento, a maggiore ragione nell’età della globalizzazione, e ad avere di se stessa un’idea rinunciataria, rassegnata, senza ambizioni nemmeno nelle faccende domestiche.
Per questo, dalla «vicenda marò» dobbiamo uscire bene. È invece preoccupante come gran parte del Paese la osservi in modo strabico: come un affare di cronaca che riguarda due militari lontani — e purtroppo i militari da noi sono spesso considerati separati dalla società — oppure come un caso da strumentalizzare a scopo di piccola polemica. È stupefacente che i partiti non ne facciano oggetto di riflessione politica, che la considerino una distrazione o al massimo un’occasione per lucrare qualche consenso. Ed è triste che la cultura e la società civile evitino di mettere piede su un terreno calpestato dagli anfibi dei militari: non una dichiarazione, non un appello, non una raccolta di firme per due servitori dello Stato.
La possibilità che il caso si avvii a soluzione positiva è reale. Fino a questo momento, sul caso dei due fucilieri di Marina l’India ha fatto pasticci. New Delhi non è mossa da spirito anti italiano o da desideri di vendetta (se non nelle sue frange populiste più estreme). È un Paese con un sistema politico complicato, spesso arrogante, e, nell’ingranaggio dei veti incrociati e dei timori del governo di mostrarsi debole con gli italiani, Girone e Latorre sono rimasti bloccati. C’è però una parte consistente dell’establishment indiano, anche del governo, cosciente della necessità di risolvere senza iattanza un caso che rischia di diventare per New Delhi più di un imbarazzo internazionale, una perdita di credibilità e un danno di reputazione capaci di declassare per lungo tempo le sue ambizioni di potenza emergente.
Contare solo sulla sobrietà indiana mentre il Paese è nel mezzo di una delle campagne elettorali più importanti degli ultimi anni non sarebbe però una buona idea: le elezioni termineranno in maggio e il rischio che almeno fino ad allora da New Delhi arrivino solo messaggi negativi è più che reale. L’Italia deve dunque continuare sulla strada intrapresa di recente — troppo tardi — dal governo e spingere per l’internazionalizzazione del processo ai due militari italiani. Soprattutto se la minaccia di giudicarli sulla base di una legge antiterrorismo (con annessa o meno pena capitale) diventasse ufficiale e l’Italia fosse messa sullo stesso piano di uno Stato terrorista. Si tratta di scegliere i tempi giusti per chiedere un arbitrato finalizzato a spostare il processo in un tribunale internazionale. In parallelo, il caso deve diventare un test per tutta la diplomazia mondiale: se due militari impegnati in attività antipirateria o antiterrorismo non sono protetti da regole e dalla comunità internazionale ne beneficeranno pirati e terroristi.
Per condurre quest’offensiva, l’Italia ha bisogno di affermare davanti a se stessa e alla comunità mondiale che la vicenda non è un fatto di cronaca ma una questione politica. Ciò può avvenire solo se su questa strada il Paese saprà mostrarsi unito, con un’idea di patria che non è quella che sventola bandiere e striscioni ma è quella di una comunità che si riconosce nelle sue istituzioni, anche militari, e partecipa con convinzione alla riduzione dei rischi globali. In questo senso, la visita che compirà a New Delhi una delegazione del Parlamento italiano la settimana prossima dovrà dare un segnale di unità nazionale e di responsabilità internazionale: senza esasperazioni, smanie parolaie e avventurismi verbali come l’assurda richiesta di rottura delle relazioni diplomatiche con l’India.
Alla fine di questa vicenda, sarà necessario aprire una discussione seria — magari con una commissione d’inchiesta — su come il caso sia stato malamente condotto sin dall’inizio. Come sia potuto succedere che Girone e Latorre siano stati consegnati senza indugi alle autorità del Kerala. Perché siano stati trattati come pacchetti postali tra Roma e New Delhi, prima trattenuti in Italia e poi, contrordine compagni, rimandati in India. E qualche considerazione la diplomazia italiana dovrà fare sulla conduzione della crisi da parte del ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi, molto protagonista e piuttosto ondivago. E occorrerà affrontare — lo si sarebbe già dovuto fare — il problema dell’attività antipirateria sulle navi mercantili: decidere se debba essere condotta da corpi di sicurezza privati — come avviene nella stragrande maggioranza del naviglio degli altri Paesi — o da elementi della Marina comandati allo scopo: in quest’ultima eventualità, le regole d’ingaggio e la catena di comando saranno da precisare senza ombre di dubbio.
Lasciare cadere la verità sulle origini, gli sviluppi e la gestione della «vicenda marò» sarebbe un errore grave, che non produrrebbe passi avanti nella ridefinizione della posizione internazionale dell’Italia e non la renderebbe rispettabile all’estero. Così come farebbe male alla coscienza di noi stessi continuare nell’indifferenza verso una crisi che non riguarda solo due militari ma l’intero Paese.
Danilo Taino