Valerio Cappelli, Corriere della Sera 25/1/2014, 25 gennaio 2014
SUONO I VIOLINI TROVATI NEI LAGER E RICORDO I MIEI 46 PARENTI UCCISI
Questa storia ha dell’incredibile per il numero delle vittime in un solo nucleo familiare nei campi di sterminio nazisti. Quarantasei parenti vicini e lontani di Francesca Dego non fecero mai ritorno da Auschwitz. Francesca è una giovane violinista di 24 anni molto quotata, Salvatore Accardo la considera un talento assoluto: a cinque anni suonava Vivaldi. È lei la protagonista del concerto intitolato «I violini della speranza». Nel Giorno della memoria per commemorare le vittime del nazismo, davanti al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si terrà il 27 gennaio all’Auditorium di Roma (diretta alle 20 su Rai5).
Per la prima volta in Italia, la JuniOrchestra di Santa Cecilia suonerà dodici violini e un violoncello che erano appartenuti a prigionieri ebrei, e dunque «sopravvissuti» alla Shoah, strumenti ciascuno con la sua storia drammatica, che l’attrice Manuela Kustermann racconterà al pubblico. C’è il violino che faceva parte dell’orchestrina di Auschwitz che accompagnava i deportati al lavoro o verso le camere a gas; quello che fu gettato da un treno in viaggio verso i lager e venne raccolto e conservato da un operaio francese; ci sono i violini dei musicisti ebrei che nel 1936 lasciarono la Germania per formare la Filarmonica della Palestina e poi di Israele voluta da Toscanini; e ancora i violini decorati con la stella di Davide dei suonatori ambulanti di musica klezmer. Tutti gli strumenti sono stati ritrovati dal liutaio israeliano Amnon Weinstein. Anche Francesca Dego, corteggiata dalla Deutsche Grammophon con cui ha inciso i 24 Capricci di Paganini a cui seguirà l’integrale delle Sonate per violino e piano di Beethoven, non suonerà i suoi due preziosi strumenti, ma uno di quegli archi rinvenuti che evocano il dovere della memoria.
Ecco la sua storia: «Sono cresciuta sul lago di Como con due tradizioni religiose. Mio padre, cattolico, negli anni in cui insegnava Letteratura italiana a Londra incontrò una ebrea americana: mia madre, figlia di immigrati tedeschi di origine polacca. Da piccola non sentivo di appartenere né all’una né all’altra realtà. Le cose sono cambiate andando avanti negli anni, la mia identità si definiva dai racconti di mia madre sui nostri familiari vittime dell’Olocausto. Il mio bisnonno, Max Gerson, un medico importante amico di Albert Schweitzer, prima del conflitto mondiale capì la pericolosità della situazione in Germania e andò negli Usa, pregando i fratelli di raggiungerlo. Ma non gli diedero retta, avevano fatto la Prima guerra, non erano ebrei ortodossi. Furono catturati e uccisi uno ad uno. La sorella del bisnonno, Hilde, riuscì con le sue tre figlie a salire su una nave diretta negli Stati Uniti, ma l’illusione della libertà fu breve, da Cuba vennero rispedite in Europa e internate in Olanda».
Il padre di Francesca, Giuliano Dego, ha scritto il romanzo Il dottor Max sulla fuga del bisnonno. Con questo peso, come si cresce? «Quando dimentichi di essere ebreo te lo ricordano gli altri. C’è un senso di sofferenza collettiva che fa parte di me e riguarda anche il mio modo di vivere la musica. Ho sempre pensato alla tradizione ebraica dei violinisti erranti». Ivry Gitlis, il violinista israeliano, dice: «Non è lui il mio strumento, sono io il suo violinista».
«Ogni violino — riprende Francesca Dego — ha una sua voce, quelli che erano in mano a grandi solisti suonano meglio, vibrano nel modo giusto; per tanti prigionieri nei lager, quel suono era l’ultima cosa che sentivano prima di morire». Al concerto interpreta la Zingaresca di Sarasate che Alma Rosé, violinista e nipote di Gustav Mahler, suonava al tempo in cui dirigeva da deportata l’orchestrina di Auschwitz.
Valerio Cappelli