Alberto Statera, la Repubblica 25/1/2014, 25 gennaio 2014
IL GRAN VALZER DEI BOIARDI LE CENTO POLTRONE DEL POTERE
I BOIARDI, grandi aristocratici feudali, sopravvissero in Romania fino agli anni Venti del Novecento, mentre Al Capone-Scarface prendeva il comando del sindacato del crimine a Chicago. I nostri, quei personaggi immarcescibili che si alternano come nella porta girevole di un grand hotel alla guida di grandi imprese pubbliche o semipubbliche e di incomparabili centri di potere para- politici, hanno svoltato senza danni la terza generazione dal dopoguerra e si apprestano a festeggiare il potere intangibile nel nuovo secolo e nel nuovo millennio. Cinquanta? Cento? O, scendendo per li rami dei più doviziosi castelli merlati del potere, addirittura il doppio? Nessuno, neanche il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni che dovrebbe essere il loro principe regnante, sa con esattezza quanti siano, anche perché non sono ben definiti i confini dei feudi che controllano. Quel che è certo è che una coorte di anziani plurimilionari nati nel secondo dopoguerra (quando non nel primo) si appresta a garantirsi una quarta età da magnati feudali nelle grandi imprese e negli enti pubblici.
MA ANCHE in posizioni da favola private o semi-private per accedere alle quali occorre il benigno viatico del principe, la politica
che nulla fa e quasi tutto può.
MANOVRE DI PRIMAVERA
La grande campagna-nomine dovrebbe scattare in primavera, ma le manovre stavolta sono più complesse e sono già cominciate alacremente, perché mai l’humus politico in cui si svolgono è stato così stravolto. Enrico Letta regna (?) e la vecchia scuola democristiana è una garanzia, ma Matteo Renzi governa. O almeno questa è la prima impressione che ha dato. Che farà il fiorentino nei grandi feudi? Lui giura che vuol tenersi fuori, come ha detto di aver fatto quando si è posto il problema dell’assetto del Monte dei Paschi di Siena. Ma pochi ci credono. E infatti l’allerta è generale: apparati di pubbliche relazioni, uffici pubblicità, società probabili o improbabili di cacciatori di teste, lobbisti sparsi e faccendieri vari sono tutti al lavoro ventre a terra per sostenere i loro feudatari di riferimento. E, per prima cosa, si tratta di capire come muoverà la nuova armata del giovane fiorentino. Di certo, non lascerà il pallino nelle mani del pisano di palazzo Chigi, avvezzo a quel mondo e ben introdotto nei circoli «networked», di cui lo zio Gianni Letta è tuttora il dominus, anche se un po’ in disarmo. Sarà scavalcato anche sulle nomine dall’altro fiorentino Denis Verdini, che con Matteo Renzi ha un’antica consuetudine, una consuetudine che risale a ben prima della sua elezione a sindaco di Firenze, che l’ex banchiere-macellaio seguì con occhio talmente affettuoso da contrapporgli alle elezioni un avversario quantomeno improbabile?
FIGURINE COSTOSE
L’album degli aspiranti top manager a vita non può che aprirsi con Paolo Scaroni, classe 1946, 67 anni compiuti il 28 novembre scorso (ultimo stipendio conosciuto come amministratore delegato dell’Eni 6,52 milioni di euro) e con Fulvio Conti, classe 1947, 66 anni compiuti in ottobre (ultimo stipendio conosciuto come amministratore delegato dell’Enel 3,948 milioni di euro). Mentre la stragrande maggioranza degli italiani in viaggio verso i settanta è in panchina a giocare con i nipotini e a incazzarsi con Letta e Saccomanni che gli bloccano l’adeguamento delle principesche pensioni, i due anziani stanno lavorando con ottime chances per ottenere il quarto mandato e assicurarsi così una quarta età da ricchi e potenti. Ma quanti dei pensionati che si trastullano con i nipotini, pur professionisti di vaglia, possono dire come Scaroni di essere totalmente intrinseci al pluripregiudicato piduista Luigi Bisignani? Il quale dell’arte delle nomine pubbliche ha fatto un mestiere e distribuisce persino dispense per spiegare come si fa ad ottenerle? «Il segreto — ha spiegato in un recente libro, la cui pubblicazione ne ha fatto un piccolo eroe delle comparsate nella compagnia di giro dei salotti televisivi — è questo: avere l’idea e l’uomo giusto. Poi bisogna far girare il nome in una ristretta cerchia di persone, ognuna delle quali deve farlo suo e riproporlo in una specie di passaparola, ma molto selezionato ». Sì, «ciao core!» direbbero a Roma, dove tutti sanno che per accedere a quei posti bisogna mettere a disposizione fedeltà, favori di ogni genere, ulteriori nomine nelle società controllate, consulenze e tanti soldi. Dicono che l’anziano Scaroni, inseguito da un paio d’inchieste di corruzione dopo la condanna ai tempi di Tangentopoli, stavolta si accontenterebbe di fare il presidente invece dell’amministratore delegato dell’Eni, più o meno il primo grande gruppo industriale italiano. Ma le sue ambizioni sono rimontate dopo l’incrociarsi d’amorosi sensi con Matteo Renzi l’altro giorno nel solito marchettificio Rai di Bruno Vespa. Gli avversari del neosegretario ne hanno inventate di tutti i colori dopo quella performance, ma ben poco credibili, come una presunta affiliazione del papà del Matteo alla massoneria fiorentina, che lo collegherebbe al network scaronian-bisignano. Balle. Renzi non è affatto stupido e sa benissimo che in caso di riconferma di Scaroni e di Conti, non solo Enrico Letta, ma anche lui il Rottamatore, dovrebbe spiegare qualche cosetta. Per esempio perché non si è battuto per rispettare la buona prassi di corporate governance che prevede che i presidenti e gli amministratori delegati non superino mai i tre mandati per consentire l’innovazione e magari quando occorre — e occorre spesso — la pulizia dei bilanci. Da noi, nel pubblico come nel privato, si preferisce la gerontofilia limitando il turn over alla ristretta oligarchia di chi è molto «networked», ha buona relazioni in ogni direzione ed è sperimentato per la sua fedeltà, che spesso andrebbe chiamata connivenza. Non a caso, gli ultrasessantacinquenni ai vertici della classe dirigente italiana sono cresciuti in pochi anni dal 25,2 al 39,3 per cento del totale. E infatti gli Scaroni e i Massimo Sarmi - classe 1948, da dieci anni alle Poste e attuale candidato a tutto dopo che ha deciso di proporsi non più come postino ma come aviatore, ennesimo «salvatore» dell’Alitalia -, o, per restare nei cieli, i Vito Riggio, classe 1947, ex deputato diccì confermato per la quarta volta alla presidenza dell’Ente per l’aviazione civile, non sono che nonni. Mentre i bisnonni — vedi Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti — popolano le grandi banche, governate da quella che Tito Boeri ha battezzato «gerobancrazia».
LA PRIMA VOLTA DI RENZI
Rispetto alla flemma apparente di Enrico Letta, Matteo Renzi si muove come una specie di furetto. L’altra sera, dopo una giornata massacrante, si è portato a casa un centinaio di schede di boiardi, boiardini e aspiranti tali o candidati alle promozioni. E a letto si è drizzato sul cuscino quando ha scoperto — guarda un po’ — che decine di loro, hanno stipendi stratosferici, a dispetto del decreto di Saccomanni (che fine ha fatto? ) che pone un tetto pari al trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione, cioè 302.937 euro lordi. Sono escluse — i posti più al sole tra i posti al sole — le controllate del Tesoro quotate in borsa, come Eni, Enel, Terna, Snam e Finmeccanica. Haia, haia, la Finmeccanica, che ha prodotto insieme per lustri armamenti e scandali dei più incredibili. I buchi degli scandali sono stati tappati da Alessandro Pansa, nominato amministratore delegato, e da Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, presidente. Ci ha messo l’occhio anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano perché l’azienda sta molto a cuore agli americani. E il rinnovo delle cariche, in primavera, sarà forse — Renzi lo sappia — la madre di tutte le nomine. Ha spiegato Bisignani, che si autodefinisce «stimolatore di intelligenze » (sic) che quella è una battaglia «a stelle e strisce», che viene da lontano, da quando De Gennaro, vicino all’Fbi, si scontrava con Nicolò Pollari, più vicino alla Cia. Non è detto che nel prossimo maggio De Gennaro resterà ancora lì, ma mentre per lui il Quirinale prepara destini ancor più luminosi, il destino di Alessandro Pansa naviga nel regno dell’incertezza. Infatti, nel frattempo è atterrato in Finmeccanica un pezzo da novanta. Si tratta dell’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ex ministro della Difesa nel governo Monti, messo a capo del comitato per le strategie internazionali. Non sarà lui il vero candidato alla presidenza della holding? E non ci sarà un bel premio per Franco Bernabè, antico consulente di Francesco Cossiga per i Servizi segreti? Per Francesco Caio? O — perché no? — per l’amministratore delegato di Fincantieri privatizzanda Giuseppe Bono?
DAL QUIRINALE
Renzi e Letta si preparino a camminare sulle uova, nel dossier Finmeccanica, che è già più che aperto nei tavoli che contano, oltre che nelle Procure. Tra l’altro c’è una notiziola passata inosservata, ma non proprio ininfluente: pochi giorni fa è entrato in Finmeccanica un nuovo boiardino: Giuseppe Caldarola, classe 1946, giornalista in pensione, ex vicedirettore di Rinascita, su cui scriveva Giorgio Napolitano, ex direttore dell’Unità e deputato per due legislature. Chissà se Renzi, che di peli sulla lingua sembra averne pochi, chiederà a qualche «stimolatore di intelligenze»: «Ma che c’azzecca?». Magari si sentirà rispondere con Vilfredo Pareto: «È la circolazione delle élite, bellezza».
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