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 2014  gennaio 25 Sabato calendario

LE TOGHE ALLEGRE HANNO IMPARATO I TRUCCHI DELLA VECCHIA POLITICA


Va tutto bene, è tutto normale. Due magistrati, Nicola Trifuoggi e Antonio Ingroia, indagano su un sistema politico, dunque acquisiscono popolarità e alla fine si candidano nello stesso sistema politico. Lo schema, eterno, è stato rinsaldato da due interviste rilasciate ieri proprio da loro, Trifuoggi e Ingroia.
Ma prima seguiamo la parabola dell’avellinese Trifuoggi, che è meno noto. Pretore a Pescara, poi capo della procura a Chieti e, dal 2003, capo della procura ancora a Pescara; con lui partono un’infinità di inchieste sulla politica, tipo: scandalo della Finanziaria regionale, tangenti, soprattutto lo scandalo della sanità che spazza via la Regione Abruzzo e Ottaviano Del Turco, e poi, ancora, lo scandalo rifiuti (che coinvolge anche dei senatori) e via così. Alcune inchieste erano fondate, altre si sono dissolte, altre cincischiano. Ricordiamo che Trifuoggi fu uno dei mitici pretori che nel 1984 oscurarono le tv Fininvest. Bene: dopo tutto questo, dopo che le inchieste della sua procura, per esempio, hanno decapitato la giunta dell’Aquila, Trifuoggi entra in giunta all’Aquila. Meglio: dopo che era stato indagato anche il vicesindaco, Trifuoggi diventa vicesindaco. E va tutto bene, è tutto normale: «Non provo imbarazzo, lo proverei se dovessero arrestare il sindaco, Massimo Cialente».
Ma - domanda - Trifuoggi oltretutto non era quello del famoso fuorionda in cui Fini criticava Berlusconi, nel 2009? «Era la prima volta che vedevo Fini di persona». Capito. Trifuoggi è vicesindaco e il sindaco Cialente è del Pd, stesso partito della giunta regionale che la procura decapitò completamente: nessun imbarazzo neanche per questo? «Riguarda un capitolo della mia storia del quale non mi voglio più occupare... non mi riguarda più». E basta dirlo: arrivederci e buon lavoro.
Ed eccoci a Ingroia, che non stupisce più se non - anche lui - per disinvoltura. Alla fine è riuscito a spuntare un incarico di sottogoverno ed è diventato commissario della partecipata regionale «Sicilia e Servizi»: il problema è che adesso rischia di passare per garante dei famigli mafiosi e soprattutto degli amici di Totò Cuffaro. L’ha già raccontato ieri Davide Giacalone su queste pagine: Ingroia ha annunciato che 76 dipendenti della partecipata potranno essere assunti dalla Regione Sicilia (che ha già il record mondiale di dipendenti pubblici) e tra costoro c’è di tutto: fedelissimi della vecchia Udc, trombati, raccomandati, un indagato per tangenti e vari parenti di boss mafiosi. Un Ingroia ovviamente sulla difensiva e che, su Repubblica, ha ostentato un genere di spiegazione sentito mille volte: le assunzioni sono inevitabili comunque c’è il periodo di prova, non potevo fare altrimenti, essere inquisiti o parenti non può essere una colpa eccetera. «Conosco la storia e le cosiddette appartenenze politiche di questo personale, ma non potevo certo farmi condizionare dalle mie idee», ha detto. Non sia mai che le idee condizionino l’azione di Ingroia. L’ex pm della «trattativa» lo dimostra anche in un’intervista più ad ampio spettro concessa agli amici del Fatto Quotidiano, che - disabituati - gli rivolgono addirittura delle domande.
Delle domande a lui, Ingroia, il più sfacciato sgusciatore der bigoncio. Anzitutto: com’è che un liquidatore si mette ad assumere? «Condivido le Sue perplessità ». Com’è che va a braccetto con Crocetta? «Rientra nella sfera dei miei rapporti personali». Lasciare la toga, forse, non le ha fatto tanto bene. «Il mio impegno da magistrato era giunto al culmine, era un tragitto concluso». Sì, ma a in politica non si va con la toga da magistrato, prima ci si dimette. «Non ho creduto che fosse necessario, la sua tesi», dice all’intervistatore, «è infiltrata di propaganda berlusconiana». Ma anche Berlusconi può dire cose sensate. «Infatti potevo prendere atto che era un sentimento diffuso e dimettermi prima di candidarmi». Oppure poteva non candidarsi. «Mi crede se le dico che la candidatura non era la mia impellenza?». No - osservazione nostra, non dell’intervistatore del Fatto. Il quale prosegue: che c’è andato a fare in Guatemala, visto che seguiva ogni giorno le faccende italiane? «Lì anche ho sbagliato... ho diritto a scegliere e anche a sbagliare». Capito. Finalino: «Sono persuaso di fare la cosa giusta per il mio Paese. Non ho altro scopo... Bado poco alla mia immagine». Vero anche questo.