Nino Sunseri, Libero 25/1/2014, 25 gennaio 2014
PRIVATIZZARE SÌ, SVENDERE NO POCHI 4 MILIARDI PER LE POSTE
Il governo ha annunciato che venderà il 40% di Poste. La quotazione in Borsa è prevista per fine anno e Saccomanni pensa di incassare fra quattro e cinque miliardi. Come sempre, quando si parla di beni pubblici c’è la domanda-capestro: il prezzo è giusto? La cifra comunicata da Saccomanni corrisponde ad una valorizzazione complessiva del gruppo compresa fra dieci e dodici miliardi. Non lontano dalla stima fatta tre anni fa da Deutsche Bank. Poi confermata da Goldman Sachs nell’ambito della transazione fra il Tesoro e la Cdp.
Si tratta di una base di partenza anche se poi non c’è nemmeno da impiccarsi a quei valori. Nel 2010 era lo Stato che, nella buona sostanza, trattava con se stesso.
Comunque una valutazione ferma a tre anni fa è molto conservativa. Basti pensare che, nel frattempo, Poste Assicura è diventata la prima compagnia d’assicurazione italiana e Bancoposta macina sempre buoni utili. Da qui la prima perplessità: lo Stato avrebbe certamente incassato di più dallo spezzatino. Perchè è vero che il mercato sarà chiamato a investire in un gruppo con 24 miliardi di fatturato, 14 mila sportelli 143 mila dipendenti e pochi debiti; ma è anche vero che Saccomanni avrebbe guadagnato molto di più con una quotazione separata. Dentro Poste, infatti, convivono attività in forte sviluppo (banca e assicurazione) e altre in perdita come la corrispondenza. Certamente il mercato avrebbe preferito che il Tesoro si tenesse il servizio di spedizione regolato dal contratto di servizio universale che obbliga Poste a consegnare le lettere in tutta Italia entro un giorno. In realtà sarebbe stato preferibile il vecchio progetto che destinava alla Borsa solo i servizi finanziari: sia per garantire maggior trasparenza al business sia perchè in crescita costante. Invece il Tesoro ha privilegiato gli interessi di un sindacato preoccupato dai possibili tagli nell’area della corrispondenza non più alimentato dai guadagni delle altre attività. A suggellare il patto c’è la quota del 5% del capitale riservata ai dipendenti.
Tutte queste caratteristiche impediscono di assimilare il collocamento di Poste Italiane a quello di Royal Mail (protagonista di un autentico boom al listino) e soprattutto di Deutsche Post che, in Borsa dal 2000 si e trasformata in una multinazionale della logistica. Il gruppo guidato da Massimo Sarmi non avrà richiamo speculativo: il governo britannico si è tenuto solo il 40% e quello tedesco appena il 21%. Il Tesoro conserverà il 60% del capitale insieme ai legami con il gruppo. Insomma per il mercato l’acquisto di azioni di Poste Italiane avrà le caratteristiche di un investimento obbligazionario più che di capitale di rischio. Lo stimolo principale sarà il dividendo. Sempre che l’Antitrust, sollecitato dai concorrenti, non cominci a disboscare nei legami fra lo Stato e l’ex monopolista.
Alla luce di queste considerazioni si capisce per quale ragione Saccomanni si è tenuto basso nelle valutazioni. Tanto più che c’è un sospetto. E cioè che la privatizzazione di Poste sia solo un’operazione di facciata. Sia verso i mercati per cancellare l’immagine di immobilismo sia per coprire l’incapacità di tagliare la spesa pubblica.