Elisabetta Muritti, D, la Repubblica 25/1/2014, 25 gennaio 2014
FARESTI DA CAVIA PER GUARIRE?
La domanda tocca troppi strazi, c’è chi ha paura di morire e chi ha bisogno di soldi, e spesso non implica la voglia di contribuire ai traguardi della scienza: sperimenteresti su di te una nuova medicina o un’inedita terapia? Ecco perché si parla di “business delle cavie umane”, dei molti giovani volontari sani italiani che ogni anno, dietro compenso, varcano le frontiere per sottoporsi a sperimentazioni cliniche per conto di multinazionali, soprattutto nel Canton Ticino, ma pure in Austria e Francia. Generalmente li aspetta una cosiddetta Fase 1 decorosamente remunerata, cui non potrebbero accedere così facilmente nel loro Paese, dov’è rigidamente regolata e in mano pubblica: cioè il primo studio sull’uomo di un farmaco di cui si devono ancora valutare quantità, effetti collaterali e azione nell’organismo. Queste “cavie” sono dunque l’anello di congiunzione tra la sperimentazione preclinica (“in vitro” in laboratorio e “in vivo” sugli animali, quest’ultimo aspetto oggi nell’occhio del ciclone) e le successive Fase 2 (volontari malati, in gruppi, ad alcuni dei quali è somministrato un placebo), Fase 3 (costosissima, con somministrazione casuale, o randomizzata, del nuovo farmaco e di altri esistenti, spesso a “doppio cieco”, cioè né i pazienti, né i medici sanno chi sta prendendo cosa) e Fase 4 (analisi postmarketing e farmacovigilanza di un prodotto già in commercio). Le “cavie umane” fanno parlare. Si va dal prestigioso King’s College di Londra che ha “fornito” studenti per test sulla cocaina (requisiti: mai preso droghe nella vita, niente studi di medicina, divieto di tagliarsi o tingersi i capelli per 3 mesi) alle inchieste che via via rivelano zone d’ombra, le sperimentazioni anni 80 sui cittadini della Ddr, le attuali, discusse, in India, Cina, Brasile... Più accurata la recente inchiesta del quotidiano francese Le Monde (“Essais cliniques cherchent volontaires”), in cui si sottolineano la diffidenza dei malati, la disinformazione dei medici di base, la poca chiarezza sugli effetti collaterali, la difficoltà dei pazienti ad aver accesso ai farmaci testati, la crisi di fiducia nei confronti della ricerca, alimentata dall’opacità dell’industria farmaceutica che spesso rende indisponibili i dati della sperimentazione che finanzia. Per finire coi problemi opposti e complementari: regolamentazioni ormai così “puntigliose” da frenare la ricerca (calo del 25% tra 2007 e 2011), meno risorse economiche e investimenti, a fronte di più lunghi periodi di sperimentazione, più forti esigenze di sicurezza ed eticità, più dati da organizzare.
In realtà è la sperimentazione clinica stessa ad aver potenzialmente pronta la soluzione delle sue contraddizioni contemporanee. E la soluzione è il progresso scientifico. Che cambia prassi e sentimenti. Un altro articolo di Le Monde (“Essais cliniques des Médicaments: la nouvelle donne”) ricorda che lo sviluppo delle nuove molecole è in piena mutazione, soprattutto nel campo delle malattie genetiche, che i laboratori non profit creati dalle associazioni di malati significano cambiamenti radicali. Così come sono fattori d’innovazione le terapie mirate e la genomica dei tumori, che fanno convergere gli studi non più solo verso i farmaci ma verso gli algoritmi terapeutici. «È la rivoluzione della medicina personalizzata: sequenzi il Dna e dai il farmaco», dice Giuseppe Curigliano, che dirige la Divisione sviluppo nuovi farmaci per terapie innovative all’Istituto europeo di oncologia (Ieo) e si occupa di ricerca traslazionale (che trasferisce i risultati di laboratorio all’ambito clinico). «Fino al 2000 era diverso, per lo più si testavano sui volontari sostanze di cui si dovevano capire farmacocinetica e farmacodinamica, e dunque tossicità; oggi si cerca il bersaglio farmacologico, il processo biologico su cui intervenire. Solo se hai quel bersaglio, cioè quella molecola o quel gruppo di molecole che presiede alla crescita di una cellula, che può esser centrato da una sostanza farmacologica, usi quel farmaco. Ciò comporta meno rischi, tanto più che sono i bioinformatici a dirti quali alterazioni devi bersagliare. Il nuovo rischio diventa semmai di non aver ancora i farmaci giusti rispetto al bersaglio». E conclude: «In Italia la regolamentazione dovrebbe implementare e non complicare gli studi clinici di fase precoce, tanto più che i pazienti sono più generosi di quello che si pensi. E occorre umanizzare la medicina, soprattutto oggi, in cui è estremamente illuministica».
Di fatto l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) sta valutando una proposta della Commissione europea per ridurre i costi della sperimentazione e rendere di nuovo “attraente” il Vecchio Continente, trascurato dai trial clinici. E poi, per decreto legge non occorre più l’autorizzazione per la produzione del principio attivo da usare in Fase 1. Ma come allentare il nodo d’avversione, avidità e aspettative in eccesso emanato dagli studi clinici di Fase 1 realizzati sui volontari sani, certo, rari in Italia (il centro più importante in questo senso è il Crc dell’Ospedale di Verona)? Curigliano ricorda l’episodio londinese del 2006, con 6 “cavie” a cui fu somministrato un anticorpo monoclonale superagonista, arrivate quasi in punto di morte: «Bisogna investire di più nella ricerca di fase precoce, e va trattato un volontario alla volta, monitorandolo 3 settimane, minimo... ». A ogni buon conto, per gli esperti la strada per il futuro è tracciata, pur con dubbi e patemi: certo, medicina di precisione, con terapie a bersaglio molecolare su piccoli numeri di pazienti, conseguente passaggio diretto dalla Fase 1 alla 3; soprattutto, meno studi randomizzati di Fase 3, lunghi e costosi (e “crudeli” coi malati, secondo quanto espresso dal Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi), a favore di sperimentazioni non randomizzate piccole, in tempo reale, su pazienti omogenei, delegate a organizzazioni indipendenti dalle case farmaceutiche coinvolte e rigorose come un trial randomizzato. Poi, distribuzione del farmaco precoce ma dapprima limitata a centri in grado di monitorarne gli effetti.