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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

MARTIN CASTROGIOVANNI

Indossa una maglietta celeste che gli va stretta ma deve essere almeno una XXL, e sopra c’è scritto a grandi lettere: Be free. Sii libero. Sotto l’occhio sinistro uno sbrego ricucito di fresco con del filo nero: dieci punti di sutura, l’ultima mischia dell’altro sabato. Tre cani al guinzaglio — un bassotto a pelo lungo, un bulldog, un pastore belga — ognuno che tira per conto suo: lui prova a domarli con un urlaccio però gli scappa da ridere, perché con quei capelli lunghi e il barbone pare Mangiafuoco, ma si vede benissimo che l’orco è buono. «Sono uno felice», dice di sé. «Semplice. Solare ».
Martín Castrogiovanni, pilone dell’Italrugby. Mani enormi, sguardo dolce. Centoventi chili di muscoli e sorrisi. Un presente da fuoriclasse sul campo: cento presenze con la maglia azzurra, sette anni a Leicester con i maestri inglesi, oggi in un club stellare della Costa Azzurra. Un campione anche in tivù, tra pubblicità e beneficenza: “Castro” che carica come un bufalo per le strade della città, la palla ovale al petto, che scaraventa lontano pneumatici come fossero coriandoli. E Castro vestito da cuoco che spezza cucchiai di legno, che indossa un tutù e tutto concentrato prova assurde piroette. Conduttore di programmi sull’ambiente, ospite del festival di Sanremo. Grosso, burbero, ironico. Allegro, amato. Un futuro da Bud Spencer. «Magari. Me lo dicono tutti, ci penso. Mi piacerebbe fare del cinema. Però mi sa che con questa cicatrice in faccia ho chiuso prima ancora di cominciare», sbuffa bugiardo. Enrico Vanzina ha appena detto che sarebbe l’interprete perfetto per la parte del
Gigante sfregiato, libro di successo e presto film.
Da sabato prossimo sarà di nuovo ad azzuffarsi con francesi e britanni nel Sei Nazioni, il torneo più antico del mondo. L’anno prossimo, i Mondiali in Inghilterra: per Martín la quarta edizione da protagonista. Ma, prima, il matrimonio con Giulia Candiago, campionessa di sci ora commentatrice alle Olimpiadi di Sochi. «Ci sposiamo a giugno 2015. Giuro. Viaggio di nozze in motorhome per l’America, senza una meta precisa. Niente scarpe strette, giacca e cravatta, fotografie con gli invitati, ore e ore seduti a tavola. No, grazie: non fa per me. Sarà una festa in spiaggia, con le infradito ai piedi. Una cosa semplice tra amici veri, compagni e avversari di battaglie sui prati di tutto il mondo: in quel periodo non ci sono partite internazionali, verranno in tanti. E dopo il Mondiale, basta Nazionale. Voglio riposarmi».
Una vita ovale. Nonostante la mamma. «Non voleva giocassi. Troppo pericoloso. Così ho provato con il nuoto, poi la pallacanestro. Un giorno mi è venuta un’idea: ho strattonato un arbitro, l’ho preso per la collottola. Mi hanno squalificato, addio basket. Mamma si è arresa, e mi ha dato il permesso». Aveva diciotto anni, ora ne ha appena compiuti trentadue. «Vivevamo a Paranà, Argentina. Un fratello e una sorella più piccoli, i miei genitori sono biochimici: ci piaceva fare lunghi viaggi in macchina, tutti insieme. Siamo sempre stati così: liberi. E quindi felici. Vengo da uno strano miscuglio di razze: la nonna è di Enna, poi c’è sangue tedesco, indio. A vent’anni ho dovuto scegliere: argentino o italiano? Fai quello che ti dice il cuore, noi ti saremo sempre accanto: così hanno detto i miei. I miei eroi. E allora sono partito per questa avventura, che chissà quando finisce. Non li ringrazierò mai abbastanza». Il primo contratto a Calvisano, provincia di Brescia. Cinque anni di mischie e placcaggi. Il ragazzo ha forza e talento. Dalle parti di Londra s’accorgono di lui. Roba da non crederci: un italiano invitato da quelli che questo sport l’hanno inventato. «L’esperienza a Leicester è stata straordinaria. Sono diventato un giocatore, un uomo. Il club mi ha dato tutto, avrei voluto vivere lì per sempre. Ma con l’ultimo allenatore proprio non andava. Peccato». L’estate scorsa si è trasferito a Tolone, in una multinazionale di campioni con un presidente che sembra uscito da un romanzo di Émile Zola: il cinquantenne Mourad Boudjellal, figlio di un camionista algerino e di una donna delle pulizie armena, da bambino sulle bancarelle dell’angiporto vendeva i fumetti disegnati dal fratello poliomelitico. Ha fatto fortuna con una casa editrice e ha mollato tutto per investire solo nella squadra di rugby della città: geniale e un po’ sbruffone, sempre a caccia di guai e di rivincite come la gente del Midi, non bada a spese per avere i giocatori più forti del pianeta. Wilkinson, Giteau, Fernandez Lobbe, Habana, Williams. Inglesi, australiani, argentini, sudafricani, neozelandesi. Più i migliori atleti francesi. E Castro l’italiano, naturalmente. «Che tipo, monsieur Boudjellal. All’inizio avevo un po’ di soggezione,
mi sembrava come di far parte di una collezione di oggetti d’arte. Ma la cosa più bella è che più i campioni sono famosi, più sono umili. Semplici. Puoi solo imparare. Da Jonny Wilkinson, il più grande di tutti: che ancora oggi, ogni giorno, dopo l’allenamento si ferma due-tre ore da solo a fare esercizio. O Matt Giteau, che fa meno sacrifici ma ha una classe immensa». Gli piace proprio, Giteau: «Mi alleno duro. Ma come a lui, mi piace godermi la vita. Che è una sola». Cita Arancia meccanica:
«Perché i cervelluti si affidano all’improvvisazione». E poi, il sole della Costa Azzurra. «Vuoi mettere con il freddo e la nebbia inglese? Lassù si chiudono in casa, cenano alle sei e alle nove sono già a letto. Musoni. Qui c’è passione, orgoglio e voglia di stare insieme: arrivi allo stadio prima delle partite e ti aspettano per stringerti la mano, farti coraggio. Qui si vive bene, si pensa bene, si gioca bene».
Confessa di non leggere molto, di preferire la playstation. Però quell’articolo di Giuseppe D’Avanzo, il manifesto del rugby e della nazione italiana alla vigilia dei Mondiali del 2007, se lo ricorda bene. «Bellissimo. Mi hanno detto che D’Avanzo da ragazzo era un buon giocatore. Un pilone, come me».
Rugby. Uno sport che istruisce, accultura. La disciplina abbinata al senso di responsabilità, il servizio alla collettività. Dove si conquista il terreno insieme, spanna dopo spanna. In scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il metodo. La necessità di una ragione comune in una nazione divisa”.
«Il problema di noi italiani è che pensiamo sempre al quotidiano. Mai al domani. In Inghilterra ho imparato tanto: loro programmano, valutano come saranno le cose tra dieci anni. Allora si organizzano, dettano delle regole precise e le seguono. Chi sbaglia, si assume le sue responsabilità. E paga. Se perdono non fanno drammi, non si accusano l’uno con l’altro. Pensano a risolvere il problema. Invece noi se vinciamo siamo eroi, se perdiamo dei falliti». Nella vita e nello sport. «E poi, la cultura sportiva. Nei paesi anglosassoni è la scuola che ti segue, che ti insegna il valore della disciplina e il piacere di stare in campo. Giochi a rugby, a calcio, a pallacanestro: divertimento e educazione alla vita. In Argentina ci sono i club: i genitori pagano una quota e gli affidano i figli per tutta la giornata, sapendo che gli faranno provare almeno tre o quattro discipline. In Italia? Ti devi arrangiare». Mancano le strutture. «Se ti fanno costruire un supermercato, ti obbligano a regalare alla comunità un bel terreno da gioco: succede in Francia. Bello, vero?». Ma il rugby può davvero cambiare l’Italia come sognava D’Avanzo? «Non lo so. Speriamo. Vedo che nonostante le nostre sconfitte, la gente allo stadio è sempre più numerosa. Apprezzano la voglia di lottare, il sacrificio comune, il rifiuto degli alibi. Buon segno». Adesso le mamme non hanno più paura di portare i bambini a infangarsi per una palla ovale. Anzi. «L’importante è che non ci facciamo contaminare da abitudini, come dire?, calcistiche. Anche i migliori giovani devono ricordarsi che non si è mai arrivati: servono impegno, umiltà, voglia di migliorarsi. Altrimenti alla prima difficoltà, al primo dolore, finisce tutto. E poi, il vero rugby mica lo giocano i campioni». No? «No. Il vero rugby è quello delle piccole squadre, degli amici di una vita, delle battaglie e dei terzi tempi, quelli veri. Mica come noi professionisti, ché ormai dopo la doccia siamo già sull’aereo».
Qualche anno fa s’era preso a pugni con l’orco francese, Sebastien Chabal, per via di un complimento di troppo alla sua Giulia. «Ma no, non è mai successo niente. Per fortuna. Hai presente quanto è grosso Chabal? Ma soprattutto: quanto è brutto?». Sì, per chiudere ci vorrebbe una birra. Come da tradizione. «Però io la birra non posso berla. Sono celiaco. Buffo, vero? Un rugbista che non beve la birra». Sorride. Si vede che è un gigante di quelli buoni.