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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

JOB ASIA

Viet­nam, Cam­bo­gia, Indo­ne­sia, Corea del Sud, Hong Kong, Bir­ma­nia, Ban­gla­desh, India e natu­ral­mente Cina: cosa uni­sce in que­sto recente squar­cio del 2013 e ini­zio del 2014 que­sti paesi asia­tici? Tanti fat­tori eco­no­mici, sicu­ra­mente, ma soprat­tutto un ele­mento socio– eco­no­mico: le lotte dei lavo­ra­tori. Si tratta di bat­ta­glie diverse, dagli esiti e dina­mi­che dif­fe­renti, ma che insi­stono su un’unica diret­trice: il miglio­ra­mento delle con­di­zioni eco­no­mi­che, diritti sin­da­cali, aumento dei salari e una pro­fonda cri­tica delle con­di­zioni di lavoro.

All’interno di que­ste lotte si celano ulte­riori ele­menti dell’economia glo­ba­liz­zata: pro­du­zioni a basso costo che reg­gono interi paesi, delo­ca­liz­za­zione e pro­du­zione per grandi brand. Prato è in Asia, un con­ti­nente dai mille con­flitti, dalle enormi dif­fe­renze poli­ti­che, spesso lon­tano dalle bus­sole dell’attenzione media­tica. Un tempo alcuni di que­sti paesi, ad esem­pio Hong Kong e la Corea del Sud, erano defi­niti le tigri asia­ti­che: paesi entrati nell’alveo del capi­ta­li­smo, in grado di esal­tare i più noti espo­nenti del libe­ri­smo mondiale.

La fine è sem­pre stata la stessa, le con­trad­di­zioni del libe­ri­smo si river­sano sui diritti delle per­sone e sulla totale assenza di coper­ture sociali, oltre che disguidi di natura pura­mente eco­no­mica, finan­zia­ria, fiscali, retri­bui­tiva, infla­zio­ni­stica. Il sistema non regge. Ma ci sarà sem­pre, o almeno qual­cuno spera, una zona franca su cui impian­tare fab­bri­che con sgravi fiscali e assu­mere a due lire cen­ti­naia di lavo­ra­tori da inse­rire in caser­moni, lad­dove la vita lavo­ra­tiva e quella «nor­male» si sovrap­pon­gono a com­pleto annul­la­mento della seconda. La crisi occi­den­tale ha spinto al ribasso, almeno quei paesi che hanno fatto delle espor­ta­zioni il pro­prio modello pro­dut­tivo. Sotto que­sta col­tre di esi­genze pro­dut­tive, spesso in grado di creare strambe alleanze tra capi­tale e regimi poli­tici discu­ti­bili, si nascon­dono le insi­die di nuove classi di lavo­ra­tori e lavo­ra­trici che insieme ai salari più alti chie­dono anche diritti. E’ una bat­ta­glia che non si sco­pre certo oggi, ma che in Asia apre una sta­gione di lotte sociali di natura storica.
L’ex fab­brica del mondo

Negli ultimi anni in Cina si è assi­stito alle nuove lotte di quanti ven­gono defi­niti «i nuovi lavo­ra­tori cinesi»: si tratta di gio­vani che spesso sono lau­reati e che si ritro­vano alle catene di mon­tag­gio di fab­bri­che che pro­du­cono beni di con­sumo tec­no­lo­gici, tablet e smart­phone, e che al con­tra­rio dei loro geni­tori che ave­vano accet­tato qual­siasi con­di­zioni di lavoro pur di uscire dalla povertà, sono invece com­bat­tivi e in grado di mobi­li­tarsi, sfrut­tando pro­prio quei pro­dotti che con­tri­bui­scono a pro­durre. Nokia, Apple e tanti altri pro­dut­tori tec­no­lo­gici hanno visto scio­peri e pro­te­ste nelle fab­bri­che cinesi; Pechino e il governo cinese hanno spinto non poco per gli aumenti sala­riali, anche per­ché la stra­te­gia della nuova lea­der­ship è pro­prio abban­do­nare sem­pre di più la pro­du­zione a basso costo, in nome dell’innovazione e del mer­cato interno.

Signi­fica con­sen­tire ai lavo­ra­tori di spen­dere meno per i ser­vizi sociali, per i quali sono al vaglio forme assi­cu­ra­tive sul modello ame­ri­cano, e con­su­mare di più i pro­dotto del mer­cato nazio­nale. Redi­stri­bu­zione, miglio­ra­mento delle qua­lità, anche a fronte di un invec­chia­mento della popo­la­zione che crea impen­sa­bile sac­che di man­canza di mano­do­pera nei pol­moni pro­dut­tivi per l’esportazione cinese. La Cina stessa ormai delocalizza.
Viet­nam, Indo­ne­sia e Birmania

E con il gigante asia­tico tanti brand stra­nieri tro­vano nei paesi vicini, lavoro a basso costo e ini­zial­mente poco con­flit­tuale. Ma gli eventi rela­tivi a scon­tri e pro­te­ste sono sem­pre di più. In Viet­nam a ini­zio gen­naio undici feriti sono stati il risul­tato degli scon­tri tra lavo­ra­tori e guar­die di sicu­rezza di un impianto della coreana Sam­sung. Le moti­va­zioni sono nate da un bat­ti­becco tra guar­die e lavo­ra­tori e sono sfo­ciate in riven­di­ca­zioni di migliori con­di­zioni di lavoro.

La dina­mica viet­na­mita, però pre­senta molti punti di con­tatto con altri paesi dell’area: le aziende stra­niere godono di sgravi fiscali per inse­diarsi in deter­mi­nate aree, magari depresse o poco uti­liz­zate dai mec­ca­ni­smi di pro­du­zione e fini­scono per creare luo­ghi fab­brica, con salari bassi.

Nel dicem­bre scorso 130 lavo­ra­tori della Tha­zin Biscuit Fac­tory nella zona indu­striale del Pyi­gy­i­da­gun a Man­da­lay, in Myan­mar (Bir­ma­nia) hanno ripreso le pro­te­ste fuori dalla fab­brica dopo che un pre­ce­dente accordo sul paga­mento degli straor­di­nari era sal­tato. Il Dipar­ti­mento del Lavoro, aveva pro­messo di affron­tare le loro richie­ste per una migliore retri­bu­zione di lavoro straor­di­na­rio e durante le festi­vità nazio­nali e la dome­nica, ma tutto pare sia ancora fermo.

O ancora in Indo­ne­sia: secondo Glo­bal Voice, nel novem­bre del 2013, «le orga­niz­za­zioni dei lavo­ra­tori hanno indetto uno scio­pero gene­rale di due giorni per richie­dere al governo l’innalzamento del sala­rio minimo a 334 dol­lari al mese. Secondo gli orga­niz­za­tori, due milioni di lavo­ra­tori in 20 pro­vince hanno incro­ciato le brac­cia. Sono state inol­tre orga­niz­zate una serie di pro­te­ste in tutto il Paese, per richia­mare l’attenzione sugli scio­peri gene­rali tenu­tisi poi il 31 otto­bre e 1 novem­bre; tra que­ste: chiu­sure di fab­bri­che e mani­fe­sta­zioni per con­vin­cere altri lavo­ra­tori ad ade­rire allo scio­pero. Il 21 di otto­bre i sin­da­cati sono riu­sciti a riu­nire 20.000 lavo­ra­tori per aprire un tavolo di dia­logo nazionale.

Oltre alla que­stione dell’aumento del sala­rio, i lavo­ra­tori hanno avan­zato anche altre richie­ste: Aumento del 50% dei salari minimi, Coper­tura sani­ta­ria per tutti, Proi­bi­zione delle pra­ti­che di outour­cing, Abo­li­zione della legge anti­sin­da­cale (No. 9/2013) che, oltre ad abo­lire il sala­rio minimo, impone alle forze di poli­zia di “tenere sotto con­trollo il pro­cesso per sta­bi­lire il sala­rio minimo e la sua attua­zione poli­tica”, Pro­mul­gare una legge che pro­tegga i lavo­ra­tori domestici.