Gabriele Meoni, Il Sole 24 Ore 26/1/2014, 26 gennaio 2014
MENO CRESCITA E PIÙ RISCHI È FINITA LA FESTA DEI BRICS
Hanno vissuto di rendita per cinque anni. L’abbondante liquidità immessa dalle banche centrali di tutto il mondo ha garantito un lungo periodo di quiete ai Paesi emergenti. Ora però la festa è finita, la Federal Reserve ha iniziato a ritirare gli stimoli monetari e i mercati si stanno adeguando a uno scenario in cui è necessario diventare più critici e selettivi. Gli investitori stanno così scoprendo, spesso sulla loro pelle, che tra le economie emergenti si nascondono non poche insidie. Crescita più bassa, squilibri nei conti con l’estero, riserve valutarie in calo tornano a preoccupare. E riesplode prepotentemente quel rischio politico che sembrava ormai scomparso: proteste di piazza e scontri tra istituzioni accendono la spia rossa dell’instabilità. La «nuova normalità» fa tornare a galla vecchie debolezze degli emergenti, che però restano un motore fondamentale dell’economia globale e appaiono nel complesso più attrezzati del passato a resistere alle pressioni dei mercati.
1 È finita l’era della crescita a ritmi accelerati
Per i Brics, e non solo, è finita un’era. I tassi di crescita che hanno conosciuto per decenni non sono più sostenibili. Per 35 anni la Cina ha messo a segno un tasso medio di espansione del 9,7%, «un miracolo senza precedenti nella storia dell’uomo» secondo l’ex capo economista della Banca mondiale Lin Yifu. Ora Pechino cresce del 7,5% ed è il migliore dei Brics: l’India viaggia intorno al 5%, Sudafrica, Brasile e Russia tra il 2 e il 3 per cento. È una frenata strutturale, non ciclica, provocata da un mix di fattori: tra quelli esogeni spicca la fine del boom dei prezzi delle materie prime, di cui molti Paesi emergenti sono grandi esportatori; tra quelli endogeni in cima alla lista c’è la cronica carenza di investimenti (con l’eccezione cinese) che non sono in grado di tener testa all’aumento della domanda di consumi da parte della classe media e sono frenati da infrastrutture inadeguate, burocrazia e carenza di manodopera qualificata.
2 Se Pechino non ride gli altri piangono
Il rallentamento cinese, anche se ai più appare fisiologico, ha un impatto spesso sottovalutato sull’Asia e non solo. «Secondo le nostre stime - ha spiegato Min Zhu, vice direttore dell’Fmi, al World Economic Forum - un punto in meno di crescita degli investimenti in Cina toglie quasi un punto alla crescita del valore aggiunto nella catena di fornitori regionale». Se Indonesia, Malaysia e Thailandia sono sempre più dipendenti da Pechino, non bisogna dimenticare che dall’altra parte del mondo, in Africa e Sudamerica, la Cina è il maggior acquirente di materie prime. Se ne importa di meno, Paesi come Brasile, Argentina e Cile accusano il colpo.
3 Conti con l’estero in sofferenza
Il calo dell’export di materie prime e l’aumento dell’import legato alla voglia di consumi della nuova classe media riporta alla ribalta una vecchia conoscenza delle crisi valutarie nei mercati emergenti: il deficit delle partite correnti. Dal Messico nel 1994 al Sud-Est asiatico nel 1997-98, il passivo nei conti con l’estero è sempre stata la miccia che ha fatto esplodere le crisi. Siamo di nuovo in questa situazione? Non proprio. Se in Paesi come Turchia e Sudafrica il disavanzo ha raggiunto livelli di guardia (siamo tra il 6 e il 7% del Pil), nella maggior parte degli altri non desta gravi allarmi, tanto più che in molti casi le riserve in valuta estera sono consistenti. «C’è tuttavia un gruppo di Paesi - spiega in una nota Neil Shearing di Capital Economics - che hanno in comune il fatto di aver vissuto al di sopra dei propri mezzi e che ora andranno incontro a una fase di bassa crescita. Questa categoria, di cui fanno parte Turchia, Sudafrica, Indonesia, Thailandia, Cile e Perù, è la più vulnerabile al tapering della Fed».
4 La sindrome thailandese
Se le fragilità economiche tornano ciclicamente a colpire gli emergenti e dunque non sorprendono più di tanto, l’instabilità politica che si è vista in molti Paesi negli ultimi tempi ha spiazzato gli analisti. «Osserviamo - spiega Yves Zlotowski, capo economista di Coface - una preoccupante diffusione della sindrome thailandese, cioè una situazione in cui due gruppi politico-sociali si fronteggiano duramente senza che le istituzioni democratiche riescano a trovare una soluzione». Lo vediamo oltre che in Thailandia, in Ucraina, Turchia, Venezuela, per certi versi anche in Argentina. A complicare il quadro c’è il fatto che alcuni dei Paesi più vulnerabili sotto il profilo economico sono alla vigilia di importanti appuntamenti elettorali che non favoriranno riforme e stabilità politica nei prossimi mesi. «I cosiddetti "fragile five", cioè Turchia, Sudafrica, India, Indonesia e Brasile - continua Zlotowski - sono tutti chiamati alle urne nel corso del 2014». I turchi andranno a votare tre volte: il 30 marzo per le amministrative, poi per le presidenziali e infine per le politiche.
5 Gli emergenti «maturi»
Una lezione da trarre in questi giorni di turbolenze sui mercati è che gli emergenti non sono tutti uguali. Anzi sono molto diversi tra loro. Alcuni hanno problemi di deficit con l’estero, altri di bassa crescita, altri ancora di instabilità politica. Ci sono poi quelli che godono di buona, se non di ottima salute. Due su tutti: Polonia e Messico. La valuta polacca, lo zloty, pur perdendo qualcosa, ha retto alla bufera valutaria degli ultimi giorni meglio delle altre monete. E giovedì scorso il Tesoro ha chiuso con successo un’asta record di titoli di Stato assicurandosi in un colpo solo più della metà del fabbisogno di finanziamento dell’anno. I mercati quindi continuano ad aver fiducia nella Polonia. Lo stesso vale per il Messico, la cui valuta ha sì accusato i contraccolpi della tempesta sui mercati (-1,6% in settimana per il peso) ma che resta un’economia solida secondo gli investitori, soprattutto ora che il presidente Pena Nieto ha deciso di aprire alla concorrenza un settore chiave come l’energia. Fiducia confermata dal Forum di Davos, dove il Messico ha "intascato" 7 miliardi di dollari di nuovi investimenti da parte di Pepsi, Nestlé e Cisco.