Ugo Magri, La Stampa 26/1/2014, 26 gennaio 2014
UNA TELEFONATA E COMINCIÒ IL SOGNO LIBERALE
[Giuliano Urbani]
Vent’anni fa, quando Forza Italia fece il suo debutto, Silvio Berlusconi ci investì leadership e denaro. Quanto alle idee, furono prestate da Giuliano Urbani, professore emerito di Scienza della politica alla Bocconi.
Fu lei che bussò ad Arcore, o accadde il contrario?
«Mi cercò Berlusconi. Il perché va spiegato: all’epoca io svolgevo molte ricerche demoscopiche, da cui veniva fuori che, per effetto del sistema elettorale maggioritario appena adottato, il Pci avrebbe preso il 65 per cento dei seggi con solo il 30 per cento dei voti».
E come mai?
«Perché il vecchio ordine politico si era dissolto, gli elettori moderati del pentapartito erano rimasti senza un riferimento. Ne scrissi sui giornali, suggerendo che si desse vita a una forza politica nuova, in caso contrario i post-comunisti avrebbero esercitato un’egemonia incontrastata. L’avvocato Agnelli rimase colpito, ne parlammo. Poi arrivò la telefonata di Berlusconi, che voleva lumi. E lì prese il via Forza Italia».
Chi altro contribuì alla nascita del programma?
«Senza dubbio Antonio Martino, Paolo Del Debbio, l’allora sindaco di Terni Ciaurro... Eravamo un gruppetto di liberali militanti, animati dalla voglia di vedere finalmente in Italia un partito liberale di massa».
Oggi, guardando indietro, come considera quel tentativo?
«Una grande occasione perduta. Per l’Italia, intendo dire. Faccio un esempio: avevamo un gigantesco debito pubblico, e in questi vent’anni non l’abbiamo ridotto di un euro, anzi è ulteriormente cresciuto. Il sistema politico fa ridere, o piangere a seconda dei punti di vista. Invece di negoziare con l’Europa sul fiscal compact, siamo concentrati sul ritorno alle preferenze per avere il diritto di scegliere il nostro Fiorito di turno... Pinzillacchere, avrebbe detto Totò».
Torniamo al ’94. Oltre all’orientamento ideale, cos’altro portaste a Berlusconi in dote, voi liberali?
«Il progetto dei club, che per i tempi era una rivoluzione. Diversamente dai partiti tradizionali, noi chiedevamo di sottoscrivere il manifesto e di mostrare la fedina penale. Stop».
Il Cavaliere vorrebbe ripartire proprio dai «club» per risuscitare l’entusiasmo del ’94...
«Impossibile. Il mondo è cambiato. Quello ancora risentiva della divisione in blocchi, c’erano i nipoti e i nipotini delle ideologie totalitarie. C’era la grande speranza di fare dell’Italia un paese occidentale e moderno. La società civile non vedeva l’ora di essere coinvolta e il nuovo movimento vide scendere in campo, insieme a Berlusconi, tanta gente: avvocati, studenti, ingegneri... Gente che poi se n’è allontanata o, peggio, ha assorbito i vizi della vecchia politica, dal clientelismo alla lottizzazione, alla corruzione. In questo senso i nuovi non sono stati poi tanto migliori dei vecchi. Si ruba meno, forse, ma solo perché sono rimasti solo gli spiccioli».
Che cos’altro è andato storto, rispetto ai progetti originari di Forza Italia?
«La grande ammucchiata. Il “tutti dentro”. Come si può pretendere che venisse fuori una politica liberale da un partito infarcito di ex democristiani e di ex socialisti, con la testa ancora nella prima Repubblica e nelle sue vecchie pratiche; oppure colonizzato dagli ex missini e strattonato dai leghisti in nome della loro ottica padana? Aggiungiamo pure le vicende giudiziarie di Berlusconi , che hanno portato alla sua quasi immediata criminalizzazione, e il cerchio si chiude».
Si lanci in una profezia: nel 2034, Forza Italia festeggerà il quarantennale?
«Per riuscirci, dovrà necessariamente passare dalla leadership del mio amico Silvio a una guida meno carismatica e più normale. Le figure all’altezza ci sarebbero. Vedo ad esempio il sindaco di Pavia, Cattaneo, più amato nella sua città di quanto non lo sia Renzi a Firenze, solo infinitamente meno conosciuto. Però prima che un giovane come lui possa affermarsi dentro Forza Italia, ce ne vorrà di tempo...».
A proposito: con Berlusconi vi sentite sempre?
«Qualche volta, ma solo in amicizia. Per ragioni politiche mai. Sono fuori da tutto. Non credo più a un sistema politico che sacrifica gli interessi nazionali alle faide tra Orazi e Curiazi, Guelfi e Ghibellini. Dove trionfano le logiche di bottega e mai quelle che dovrebbero unire».