varie, 27 gennaio 2014
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 27 GENNAIO 2014
È esplosa la Caporetto valutaria dei Paesi emergenti. In Argentina il governo ha annunciato un allentamento della stretta sugli acquisti in dollari, dopo che il peso è sceso ai minimi da 12 anni. La lira turca, complice uno scandalo politico-finanziario che ha coinvolto il governo, ha toccato il minimo assoluto: dal luglio scorso ha perso un terzo del suo valore sul dollaro. Nello stesso periodo il rublo è sceso del 33%, sotto la spinta dei prezzi deboli del gas e della crisi del sistema di potere di Putin, a partire da Gazprom, gigante azzoppato dai debiti. Non è andata meglio al real brasiliano (-25%) o alla rupia indiana (- 20%) per non parlare del bath thailandese o della rupia indonesiana. E la scorsa settimana, oltre all’Argentina, è toccato alla hryvnia ucraina e il rand sudafricano (-11%), ai minimi dal 2008. Ma perché questo tracollo? [1].
Il rallentamento della Cina. La debolezza politica nei Brics. Senza dimenticare l’immancabile tapering della Federal reserve, quella riduzione di acquisti di bond e altri titoli che, lentamente, sta modificando gli equilibri globali. Sorrentino: «La catena delle cause – o, almeno, quella dei pretesti – che hanno spinto alcune banche centrali a intervenire sulle valute, è chiara. Due pilastri dell’economia globale si indeboliscono – la Cina e lo stimolo monetario Usa – e qualche elemento più debole lancia scricchiolii sinistri, che iniziano a creare tensioni anche su altri Paesi, meno solidi di altri. Una catena che segue un percorso quasi obbligato: quella della progressiva debolezza macroeconomica» [2].
Tredici anni dopo il più grande default della storia, l’Argentina è di nuovo alle soglie di un tracollo finanziario (ma questa volta, non avendo debito estero, non dovrebbe coinvolgere risparmiatori di altri Paesi). Cotroneo: «Sin dall’inizio i governi Kirchner, prima Nestor poi la moglie Cristina, hanno scelto una politica di forte spesa pubblica e controllo del cambio, il tutto condito dalla manipolazione dei dati ufficiali sull’inflazione. Hanno fatto di tutto per evitare che gli argentini continuassero a comprare dollari, come fanno da sempre per sfiducia nella propria moneta. Ma non ha funzionato. Il mercato nero è esploso, e per difendere il peso la banca centrale ha bruciato in un anno 20 miliardi di dollari di riserve, che oggi sono a un livello pericolosamente basso» [3].
Il cocktail di inflazione, riserve valutarie ridotte e scarsa competitività ha fatto sprofondare il peso del 17% in un colpo solo, giovedì 23. E solo l’intervento in extremis del governo il cambio è rientrato a quota 8,25 pesos per ogni dollaro [4]. «Dopo aver varato misure restrittive sugli acquisti di valuta e imposto una tassa del 50% sullo shopping all’estero (compreso il limite di due transazioni all’anno via internet per un totale di 25 dollari), il governo ha ribaltato la sua politica. Da lunedì 27 sarà di nuovo consentito comprare dollari tramite conto corrente. La spiegazione? Ormai, dice il governo, il cambio si è stabilizzato. Difficile crederci, visto che al mercato nero un dollaro vale 13 pesos e con un tasso di inflazione del 30 per cento, è probabile che la voragine possa continuare ancora per un bel po’» (Ugo Bertone) [1].
I Paesi emergenti stanno per vivere momenti difficili anche perché non hanno approfittato né della lunga fase di politica monetaria ultraespansiva negli Usa per fare riforme strutturali – la produttività è rimasta molto bassa – né del rinvio del tapering della Fed per predisporre contromisure a un evento comunque inevitabile. «Sapevano bene che i flussi di capitale che hanno ricevuto dal 2009 al 2012 avrebbero un giorno invertito la direzione di marcia e avevano pochi strumenti macroeconomici per assorbire o bloccare l’ingresso di queste risorse», spiega Stephen Jen della Slj Macro Partners che prevede quindi una terza fase della crisi finanziaria globale (dopo quella negli Usa e quella in Eurolandia) negli Emergenti più deboli [2].
Non a caso gli analisti si sono già esercitati in una sorta di stress test applicato ai Paesi più a rischio. Attraverso quali strumenti? Basta misurare le riserve valutarie del Paese a fronte del debito estero a breve unito al deficit di conto corrente (il cosiddetto Gefr). Quali gli esiti? Nella seconda metà del 2013 Turchia, Sud Africa, Cile, India e Indonesia disponevano di riserve tali da coprire circa un anno di necessità finanziarie lorde verso l’estero. Mentre Ungheria, Brasile e Polonia arrivano a due anni di copertura. Esposizioni a rischio anche per Ucraina, Venezuela e Argentina, ma in questi casi i rischi vengono più dall’interno che dall’effetto tapering [4].
Secondo la Banca mondiale, i primi concreti segnali di ripresa per le economie avanzate porteranno un aumento repentino dei loro tassi fino a 200 punti base (2%). Un brusco allentamento del sostegno delle economie avanzate da parte della Fed potrebbe tradursi in un calo di quasi l’80% (sino allo 0,6% del Pil) dei flussi di capitale verso i mercati emergenti. Con effetti devastanti sulle economie di quei Paesi e quindi sul resto del mercato interconnesso [4].
Liquidità è la parola chiave per capire come sono andati i mercati e dove andranno nei prossimi mesi. Gli investitori ne hanno in abbondanza, ma si stanno preparando a un futuro, non è chiaro ancora quanto prossimo, in cui gli stimoli non ci saranno più. La Fed porterà gli acquisti mensili di bond (operazioni con cui, di fatto, stampa moneta) da 85 a 75 miliardi di dollari [5].
Ma al cambio di passo i mercati si stavano preparando da mesi (il tapering è stato ventilato per la prima volta a maggio 2013) mettendo in atto quella che è stata chiamata «la grande rotazione». Un consistente spostamento di capitali che, oltre ai Paesi emergenti (59 miliardi di dollari il rosso 2013 di fondi bond e azioni) ha penalizzato in particolare il reddito fisso Usa (71,8 miliardi di dollari di deflusso) e le commodities (43 miliardi il rosso di cui 38,9 solo dei fondi sull’oro). L’Europa, i cui fondi, tra azioni e obbligazioni hanno raccolto nel 2013 flussi netti per 65,8 miliardi di dollari, si è trasformata quindi nella nuova «terra promessa» [5].
Nelle ultime tre settimane gli investitori internazionali hanno tolto dai mercati emergenti 500 miliardi di euro. Se misurata nell’arco degli ultimi 6 mesi, la cifra sale di tre volte e se si aggiunge anche l’America il conto finale del travaso di denaro dai Paesi asiatici e latino-americani a quelli occidentali è nell’ordine dei trilioni, cioè delle migliaia di miliardi [5].
Plateroti: «In un certo senso, le tensioni geopolitiche e finanziarie sui mercati emergenti sommate a fattori più tecnici come l’ipervalutazione raggiunta dal mercato azionario rispetto a quello obbligazionario e alla performance sottotono dei profitti aziendali, sembrano aver fornito agli investitori quel motivo concreto e credibile per avviare una decisa correzione di rotta. La vera domanda non è dunque “se” sia questo l’avvio della correzione, ma “quanto” sarà pesante. In questa fase si può solo dire con certezza che il denaro uscito dai Paesi emergenti e poi parcheggiato nelle Borse sia tornato a rifugiarsi sui bund tedeschi e sui bond americani, inglesi e giapponesi. E che di conseguenza, lo spread e i tassi italiani e spagnoli sono tornati in tensione insieme alle valute latino-americane e asiatiche» [6].
Nessuno può dire con certezza quali danni provocherà il riposizionamento globale dei capitali, ma il fenomeno non va sottovalutato. Lo sa bene Draghi, che nelle ultime settimane non ha perso occasione per ribadire un concetto-chiave: la Bce farà «tutto il necessario» per difendere i paesi deboli dell’Eurozona, ma per vincere la battaglia con i mercati servono riforme strutturali e politiche di sviluppo. «Easy come, easy go, dicono in America: i soldi facili hanno sempre vita breve. La vera grande preoccupazione, tanto sui mercati quanto a Francoforte, non è nel ritiro della liquidità da parte della Fed o un giorno della Bce, ma dalla forbice degli effetti che questo processo rischia di avere su scala globale. Un conto è togliere denaro a un paese, a un mercato o a un sistema che ha sfruttato l’opportunità della liquidità per risanarsi e riprendere a crescere in modo sostenibile, un altro è farlo in un contesto caratterizzato da economie forti che interagiscono con paesi ancora fragili per non aver fatto riforme» [6].
Quello che allora più preoccupa non è il calo delle borse asiatiche o delle valute dei paesi emergenti – fenomeno ampiamente previsto e anticipato – ma la fragilità politica, economica e finanziaria che è riemersa da un’area del mondo che per quattro anni ha fatto da traino alla crescita globale. E che ora, proprio per le riforme non fatte, rischia di diventarne la minaccia [6].
Note: [1] Ugo Bertone, Libero 25/1; [2] Riccardo Sorrentino, Sole 24 Ore 25/1; [3] Rocco Cotroneo, Corriere 25/1; [4] Roberta Amoruso, Messaggero 25/1; [5] Andrea Franceschi, Sole 24 Ore 16/1; [6] Alessandro Plateroti, Sole 24 Ore 25/1.