Cristina Taglietti, La Lettura - Corriere della Sera 26/1/2014, 26 gennaio 2014
CERCO EDITORE PER NON SCRIVERE
La casa di Aldo Busi a Montichiari è a ridosso di un vecchio mulino. È un’antica costruzione del Seicento su tre piani. Fuori l’intonaco è color glicine, dentro il rosa e il bianco dei muri incorniciano opere di artisti contemporanei che lo scrittore ha scelto per le copertine dei suoi libri. «Questa casa è tabù, scannatoio sessuale non lo è mai stata neppure vent’anni fa, qui io scrivo... scrivevo... e basta, non ci viene nessuno e nessuno può entrarci, a parte un mio amico d’infanzia che conosco da quando avevamo 8 anni. Bellissimo e selvaggio, nella vita ha fatto marchette, il mantenuto di anziane prostitute, il carcerato, da ex drogato è sieropositivo da un quarto di secolo, ed è sopravvissuto persino a Berlusconi. Proprio ieri è venuto a dirmi che ha un cancro con la leggerezza con cui mi avrebbe comunicato che gli è spuntato il primo prezzemolo nel vaso in terrazza. Morirò prima io, lo sento, e sono felice per lui, ha talmente più voglia di vivere di me. E poi qui viene il fisioterapista, un signore perbene, discreto, onesto, una sfinge dal mutismo intelligente, mi rimette in sesto, mai letta una riga mia, s’è salvato. Ogni tanto prendo quattro faraone, gli butto in culo un ripieno con 25 elementi che mi porta via tutta la mattina per cucinarlo: amaretto, cacao, marmellata di mele cotogne, pinoli e la mandorla della pesca con quella punta di arsenico che dà un sapore unico, poi vado a distribuirle qui e là. Proprio come l’io narrante de El especialista de Barcelona. Stanotte ho fatto tre vaschette di lasagne, con il sugo di tre ore di cottura, la besciamella con la noce moscata, ne ho data una anche al fisioterapista, per fine settimana gli darò il baccalà alla vicentina. Io ci ho fatto colazione, con le lasagne. Buonissime».
Sul bordo di alcune tele in cucina e sullo sportello del frigo ci sono foto di persone care, ma un patto cui è stato obbligato se non voleva perderle stabilisce che non ne parlerà mai più in alcun modo. «Infine, è l’unico compromesso della mia vita, ed è recente: fino a dieci anni fa avrei scelto di perderle».
Il 31 dicembre è scaduto il contratto decennale di Busi con Mondadori, il che significa che da un mese un catalogo di circa 40 titoli è sul mercato. Rizzoli ne ha acquisiti otto, tra cui Seminario sulla gioventù che ad aprile compie trent’anni, ma, dice Busi, «l’Adelphi l’ha rimosso, non ne ha mai più parlato, si vede che non ne sono mai stati veramente all’altezza, e all’estero gliel’ho venduto io, non loro. Fare questo contrattino con la Rizzoli è stata una fatica: nove mesi ci sono voluti. C’è un burocratismo, una lentezza esasperante. Io capisco che stare dietro a me non è facile perché ho una capacità di azione-reazione sincronica, non eguagliabile. Devi chiedere subito, con la massima chiarezza, le cose che normalmente si dicono dopo per falso pudore: costi, percentuali, condizione dei pagamenti, promozioni, spese. D’altronde io ho sempre avuto rapporti pessimi con tutti gli editori, anche con Bompiani, Feltrinelli. Lì, con entrambi gli editori, è difficile parlare, non vengono mai al telefono, le segretarie mi dicevano sempre: è fuori. Ma come? Ci sono i cellulari dappertutto, c’è la posta elettronica. Ancora ancora m’avessero detto, guardi, è fuori di testa... Così la traduzione di Alice nel Paese delle meraviglie l’ho tolta a Feltrinelli e data a Rizzoli. Guardi, è così bella che mi spiace per gli inglesi costretti a leggerla in originale. Mi è stato offerto proprio in questi giorni di tradurre I promessi sposi, ho declinato, tanto non avevano i soldi per coprire due anni e mezzo del mio lavoro».
Il rapporto con Segrate è finito in una sorta di indifferenza reciproca: «Un giorno, poco prima della scadenza, quando mi lamentavo che i miei romanzi non si trovavano in libreria, Antonio Riccardi mi disse: insomma, te lo dico fuori dai denti, gli italiani non vogliono i tuoi libri. Mai mi è stato fatto un complimento più grande e meritato. Ancora adesso una definizione per quello che scrivo è, purtroppo per il Paese, “spiazzante”. Avrei ormai diritto al minimo sindacale in omologazione, invece niente».
Ricorda che quando firmò il contratto decennale per i titoli pregressi con Mondadori ricevette un’offerta economica da un altro editore: «Mi dava in 5 anni quello che loro mi davano in 10. Io per correttezza non ho accettato. E mi sono molto pentito, non hanno promosso i miei libri, non hanno fatto nulla. Sono stati puntualissimi nei pagamenti, ma non ho mai trovato un corrispondente intellettuale al mio livello. La verità è che io sono fuori dai loro schemi. Non c’è un progetto culturale, nessuno degli editor attuali partecipa alla dialettica politica e civile sul Paese, ovviamente anche dovuto al fatto che la proprietà è di Berlusconi. D’altronde quando la Mondadori non riesce a far proprio El especialista de Barcelona significa che è proprio morta stamperia».
Dal contratto con Rizzoli Busi ha fatto togliere la clausola di manleva che solleva l’editore dalle conseguenze patrimoniali che potrebbero derivare dai contenuti del libro: «È una cosa che fanno tutti gli editori, ma lo scrittore che la accetta è perché scrittore non è o perché, comunque, non gli si presenterà mai questa possibilità. Non io, perché io devo rispondere all’umanità passata, presente e futura di ogni parola che scrivo e devo avere l’editore che ne risponde con me. Altrimenti vado dal tipografo di Montichiari: allora sì, poveretto, lo sollevo da ogni grana eventuale».
Libertà di dire, libertà di scrivere. Busi la rivendica come strumento fondante dell’essere scrittore e quale scopo della sua vita: «La libertà per uno scrittore è come la pialla per il falegname. Io la intendo anche come libertà da me, dalla mia ideologia, dai miei estri, dalla parte indicibile... ma non per me... di ognuno di noi. Quello che ho scritto di me, nei libri, è, in termini di cattiveria e di diffamazione in senso corrente, infinitamente superiore a quello che chiunque altro può mai sognarsi di dire. Perché io racconto anche le fantasie censurate, la zavorra dei sogni, il logorio della psiche senza oggetto a sé esterno, snido quello che attraversa la mente prima di farsi parola ufficiale. E questo non lo fa nessuno: perché lì c’è l’inferno, e io volevo banalizzarlo superandone i limiti». Ma libertà per Busi è anche poter dire quello che vuole: «È libertà di denunciare e per farlo non devi essere ricattabile. Per non essere ricattabile devi fare di te stesso un esempio civile. Nonostante le calunnie di tanti fanatici, come quelli che scrivono sul web “Busi pedofilo infame”, io sono assolutamente mondo, sono un mondo pressoché immacolato, nessuno può dire niente di me. Non è che ne vada particolarmente fiero perché sull’altro piatto della bilancia c’è il peso, o la leggerezza, e quindi l’inconsistenza sociale, di aver fatto la mia vita da solo perché la strada che ho fatto io è difficilmente praticabile con qualcun altro al fianco o per qualcun altro tout court. Sono un modello insormontabile e questo mi ha creato “solitarietà”, non solitudine. Questa casa sarebbe piena di psicopatici marchettoni di entrambi i generi, cioè di comuni italiani, se io fossi quello che chiunque pensa debba essere uno scrittore: vanesio, narcisista, egotico, uno che vuole sempre avere un pubblico».
Il suo ultimo libro, E baci, l’ha dato alla Società editoriale il Fatto («nessun editore avrebbe avuto il coraggio di pubblicarlo») insieme a Sentire le donne che proprio in questi giorni sta rivedendo e che uscirà a maggio. Ma Busi non cerca un editore, almeno non per i nuovi romanzi, dal momento che conta di non scrivere più (l’aveva annunciato anche prima de El especialista de Barcelona, più di dieci anni fa). Ma non vuole essere paragonato ad altri grandi scrittori che recentemente hanno dato l’addio al libro. «Philip Roth doveva smettere vent’anni fa. Ha scritto certe ciofeche... fa parlare le bidelle come se fossero uscite da Harvard». Smette di scrivere perché ha scritto abbastanza: «Ho vissuto tutta la vita con questa ossessione, dodici ore al giorno a scrivere e riscrivere, mai contento di me, sono contento di essermene liberato quanto di averla avuta. Tutto il resto è stato un riempitivo. Potevo essere casto, omosessuale, eterosessuale, marzianosessuale, non contava niente. Pur di scrivere mi sono ridotto a vivere: è una grande verità. Altrimenti che racconti? Anche se la scrittura non è la sublimazione di niente. Certo, la mia è stata una vita ratée, mancata. Sul piano esistenziale non ho avuto relazioni, non ho avuto amori, non ho avuto neanche sesso, se ci rifletto, perché è stata una cosa mia, fra me e me. Piacendomi gli uomini, per trovarne uno che appagasse la mia estetica in fatto di virilità, ho dovuto ripiegare su me stesso, e non ho mai smesso di piacermi. Quando mi prendeva capriccio di un’orgia cambiavo mano».
Nessun rimpianto per non aver avuto figli: «È uno dei più certi risultati della mia vita. Ogni tanto ci sono delle matte che mi chiedono lo sperma. E lì vedi il pregiudizio genetico, lombrosiano, criminale. Siccome io rappresento un genio – e lo rappresento perché loro sono delle stupide – partono dal presupposto che da un genio debba nascere un genio, come se poi, tra gli altri accidenti, non si dovesse tener conto anche del loro disgraziato apporto». Però Busi dice di credere un po’ all’ereditarietà. «Mia madre era un genio, analfabeta, ma con una forza primordiale, e mio padre era psichicamente potente, oltre a essere stato un uomo bellissimo. Aveva un fascino maschio d’antan, ma non era un selvatico, anzi, era piuttosto sofisticato nella sua crudeltà mentale, e leggeva parecchi giornali. Avrebbe aspirato a essere un ribelle, però era un vile dentro, come tutti i fascisti diventati democristiani. Qualcosa di furioso, ma molto controllato, da lui è venuto anche a me, ma in me più una forza bruta da domare che da lasciare andare, con la ragione mi sono divertito più intensamente e a lungo».
Lo spiega mentre ci trasferiamo al ristorante Salamensa («assaggiamo questa focaccia con la mortadella, prima, sembra stupendamente antica e irrinunciabile») dove ogni tanto va a presentare i suoi libri («sono venuto anche per E baci e in cambio, a parte un compenso simbolico che è finito tutto al fisco, gli ho imposto di regalare 280 chili di pane alla Caritas, ne abbiamo seicento di stomaci non tanto sazi»). Sul piano dell’educazione Busi riconosce di dovere molto a sua madre. «Sì, perché lei ti diceva no per qualsiasi cosa. Se non avevi guadagnato da mangiare non ti accettava in casa. Da bambino, avrò avuto 7 o 8 anni, mi costringeva ad andare a rubare l’erba per i conigli. C’era una contadina con una frusta lunga, di salice piangente che ti faceva malissimo se ti trovava col sacco in mano. Dai quattro anni mia madre mi dava da ricamare, esattamente come poteva ricamare il Delfino di Francia, una cosa da maschi. Ma io ricamavo per vendere i centri. Pensare a cosa avrebbe fatto lei in certe situazioni mi ha salvato spesso, perché io ho corso tutti i pericoli, ma allora avevo le antenne, sapevo essere temerario e guardingo allo stesso tempo. Adesso le antennine contro la pugnalata alle spalle non le ho più, semmai vado incontro al pericolo perché da vecchio sono molto distratto e non so riconoscerlo, non più perché mi dilettano le situazioni estreme anche in Paesi sudamericani o australiani e gli incontri al buio anche a Lambrate come una volta. Io non ho mai rappresentato un pericolo per nessuno, sono sempre stato amorevole e pacifico erotomane, senza fantasmi cattivi da far sfogare su una vittima ignara o accondiscendente che fosse. Insomma, come amante non sono mai stato un granché, cercavo di ammazzare un po’ di tempo tra un foglio e l’altro».