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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

VIVERE, AMARE E MORIRE AL CHELSEA HOTEL

Il 12 ottobre 1978, quando due barellieri portarono fuori dal numero 222 della Ventitreesima Strada West il cadavere di una ragazza di vent’anni in reggiseno nero e calze a rete con la pancia squarciata da un coltello, in parecchi a New York avrebbero firmato volentieri per la chiusura del Chelsea Hotel. Quella ragazza si chiamava Nancy Spungen ed era la compagna del bassista dei Sex Pistols, Sid Vicious, che sarebbe a sua volta morto di overdose sei mesi dopo. Di tutti gli eventi legati alla storia di questo albergo unico al mondo, quella di Sid & Nancy è stata senza dubbio la più tristemente celebre. Ma limitare il ricordo del Chelsea Hotel alle tragedie che vi si sono consumate sarebbe un torto alla sua ben più interessante storia. Soprattutto oggi che l’albergo è stato venduto e che la sua tradizione di madre accogliente per tutti gli artisti bisognosi di un tetto a New York sta per finire.
È vero che se n’erano viste anche troppe da quando quell’elegante transatlantico di mattoni in stile Queen Anne e gotico vittoriano fu rilevato da una famiglia di generosi albergatori ungheresi, i Bard, nel 1939. Dylan Thomas ci ha vissuto e scritto poesie sublimi, ma ci è anche morto in preda a delirio alcolico. Un’altra ospite, Etelka Graf, la giovane moglie di un pianista, si era tagliata una mano, l’aveva lasciata su un tavolo, e si era buttata dal quinto piano. Thomas Wolfe ci era diventato praticamente pazzo, scrivendo e riscrivendo il suo grande libro incompiuto, La ragnatela e la roccia , mentre Edgar Lee Masters cercava di proteggerlo da se stesso. La femminista Valerie Solanas aveva frequentato le sue stanze prima di scaricare la sua pistola nella pancia di Andy Warhol nel 1968. La dama della buona società Almyra Wilcox vi fece un’overdose di sonniferi mentre scriveva una lettera d’addio che non riuscì nemmeno a finire. E il giovane artista ungherese Frank Kavecky, dopo avere scoperto di esser stato derubato dei fondi che custodiva per l’Associazione dei malati ungheresi, scelse il Chelsea per spararsi un colpo in testa.
Poi ci sono quelli che ci hanno abitato ma hanno avuto il buon senso di morire di overdose altrove: Sid Vicious, la stellina dei film di Warhol, Edie Sedgwick, la regina del rock psichedelico Janis Joplin, per non parlare di Jimi Hendrix e chissà quanti altri.
Ora che il Chelsea Hotel è stato acquistato da un costruttore che l’ha rivenduto a un albergatore di Las Vegas — ora insomma che i suoi bei mattoni rossi e le finestre degli atelier all’ultimo piano sono nascosti dalle impalcature e che nessuno sa cosa uscirà dal tritatutto dell’immobiliare newyorkese — l’America ne celebra la memoria con Inside the Dream Palace di Sherill Tippins, una sorta di biografia del grande grembo accogliente per tutti gli artisti, musicisti, scrittori, e registi che hanno cercato fortuna a New York nel corso del XX secolo. Patti Smith ci ha conosciuto Sam Shepard e se ne è pazzamente innamorata; Bob Dylan ci ha scritto Blonde on Blonde e si è sposato con la sua vicina di stanza Sara Lownds. Leonard Cohen con una battuta in ascensore ci ha conquistato Janis Joplin. Warhol ci ha girato Chelsea Girls , e il compositore Virgil Thompson ci ha tenuto un salon intellettuale sul modello di quello di Gertrude Stein a Parigi.
E se esiste il Museum of Modern Art di New York, è perché i collezionisti che frequentavano l’atelier dell’artista, curatore e collezionista Arthur B. Davis all’ultimo piano del Chelsea, dopo la sua morte prematura hanno voluto onorarne la memoria fondando il Moma. Ma la cosa più straordinaria della storia del Chelsea Hotel raccontata da Tippins, non è che Burroughs vi abbia scritto Pasto nudo o che Arthur Miller vi abbia abitato dopo il divorzio da Marilyn Monroe per scrivere Dopo la caduta , una pièce su quel divorzio (gli scrittori sono animali prevedibili). La cosa più straordinaria è ciò che è avvenuto prima che la famiglia Bard l’acquistasse nel 1939 per farne un albergo per artisti. Quando cioè alla fine del XIX secolo un architetto francese di nome Philip Hubert, avendo guadagnato una fortuna vendendo all’esercito americano un brevetto per bottoni automatici, ha comprato da un gangster in disgrazia un immenso lotto di terreno in quello che allora era il quartiere dei teatri e dei negozi chic, e ci ha costruito il più umano, curioso, interessante e desiderabile modello di edificio di tutta New York, ispirandosi alle utopie del filosofo Charles Fourier e ai suoi «falansteri».

Nasce così nel 1885 il Chelsea Association Building, una sorta di condominio-club, i cui 80 appartamenti vengono in parte venduti (50) e in parte (30) affittati, per favorire il ricambio di persone e provvedere ai mezzi per pagare la manutenzione. L’idea dell’anticapitalista Hubert è di rappresentare tutti gli strati della società in un solo luogo: per i più ricchi ci sono appartamenti da 300 metri quadri con rifiniture di gusto francese, per i meno abbienti monolocali di 50 metri quadri, per gli artisti gli atelier all’ultimo piano, per gli scrittori le stanze insonorizzate e la bella vista sul fiume, per tutti delle sale da pranzo private oppure collettive al piano terreno, dove si trovano anche le cucine, e un parco sul tetto con zone per la convalescenza dei malati, un angolo per la lettura delle poesie e sentieri per passeggiare nelle belle giornate.
Un modello di vita ideale che dura vent’anni prima di soccombere a due recessioni che impongono la prima trasformazione del Chelsea in albergo. «Gli americani — diceva Hubert, nemico del darwinismo sociale — stanno minando la loro salute mentale e fisica lavorando troppo per guadagnare sempre di più». A centotrent’anni di distanza, la situazione non è certo migliorata: Manhattan è diventata un ghetto di banchieri e avvocati d’affari e Brooklyn un sobborgo di artisti imborghesiti. Forse New York potrà fare a meno del Chelsea Hotel, ma di certo avrebbe bisogno di un altro Philip Hubert.