Marco Ventura, La Lettura - Corriere della Sera 26/1/2014, 26 gennaio 2014
L’EUROPA INCIAMPA NELLE FEDI
A Chisinau una ragazza musulmana viene aggredita da due uomini che le danno della terrorista e le strappano il velo. A Tolosa un attentatore jihadista fa irruzione in una scuola ebraica e uccide tre bambini e un rabbino. Si tratta di due episodi diversissimi: da un lato, nella periferia moldava d’Europa, un piccolo fatto di cronaca lontano dai riflettori; dall’altro, al centro francese del continente, una tragedia che monopolizza i media internazionali. Per quanto diversi e lontani, entrambi i casi testimoniano la minaccia crescente alla libertà di credere degli europei. È questa la denuncia del Rapporto appena pubblicato dal Pew Research Center, l’ente indipendente americano che dal 2006 monitora le restrizioni alla libertà di culto.
Il Pew Center elabora due indici: il primo misura il clima di ostilità e scontri nella società; il secondo quantifica il livello delle restrizioni governative. Negli ultimi anni, entrambi gli indici si sono impennati in Europa. Solo il Nord Africa, il Medio Oriente e alcune zone dell’Asia hanno fatto peggio. Nel Vecchio Continente sono cresciute le violenze religiose, soprattutto le aggressioni contro esponenti delle minoranze e donne che portano il velo, come dimostrerebbero i fatti del 2012 di Chisinau e di Tolosa. Sul breve periodo, Olanda, Francia e Italia risultano tra i Paesi con la maggiore crescita del tasso di ostilità a sfondo religioso. Va ancora peggio per l’Europa con i limiti posti dai governi alle religioni. Le restrizioni statali restano infinitamente più gravi in Pakistan, in Arabia Saudita e in Cina, ma sono cresciute in Europa più che in ogni altra area. Pesa sull’indice europeo la Russia, uno tra i grandi Stati del mondo col maggior tasso di limiti alla religione, tanto sociali che governativi; ma il Rapporto rileva valori alti anche in altri Paesi a tradizione cristiana ortodossa (Bulgaria e Grecia, su tutti) e in Belgio e Francia.
Il panorama europeo è molto variegato. In alcuni Paesi, il Regno Unito e l’Italia in particolare, a una bassa densità di restrizioni governative corrisponde un’alta tensione socio-religiosa. Accade l’inverso in Bielorussia e in Belgio. In Russia e in Grecia entrambi gli indici sono alti; in Finlandia e in Repubblica Ceca, entrambi sono bassi.
La comunità scientifica dovrà vagliare l’attendibilità del Rapporto : sono legittimi dubbi sull’affidabilità del metodo quantitativo e sui concetti di religione e libertà religiosa che sottendono la ricerca. È però impossibile negare l’esistenza del problema. La conflittualità religiosa e i limiti statali alla libertà di credere sono una grande questione globale, che non risparmia il nostro continente. La crescita simultanea dei due indicatori, evidenziata dalla visualizzazione in questa pagina, non è il frutto di un abbaglio dei ricercatori americani. La comparazione con gli Stati Uniti aiuta a veder meglio il fenomeno europeo. Nel periodo studiato gli Usa hanno più che duplicato il loro indice di restrizioni governative, tradendo il proprio modello di non ingerenza statale nel religioso, ma hanno conservato lo stesso tasso di scontri sociali della rilevazione precedente. Intanto nel Regno Unito cresceva a ritmo analogo l’indice di restrizioni governative, eguale a quello americano, ma il tasso di scontri si moltiplicava per tre. Identico al caso britannico, quello italiano: i due Paesi figurano con un indice di ostilità religiose più che doppio rispetto a una media europea tenuta bassa da nazioni come Finlandia e Irlanda, Portogallo e Slovacchia.
La questione è aperta: a fronte di sistemi legali e di modelli d’integrazione diversi, cosa spinge verso l’alto l’indice delle ostilità religiose in grandi Paesi come la Francia, la Germania, il Regno Unito e l’Italia? E perché danno un valore sensibilmente più basso Stati non meno investiti dai flussi migratori come l’Olanda, il Belgio e la Svizzera? Il Rapporto ci interroga sulle cause e sulle misure da adottare. Lo stesso Pew Center ha fornito la risposta più ovvia nel suo Rapporto sulla primavera araba dello scorso giugno. La caduta dei dittatori in Tunisia, Libia ed Egitto, la guerra in Siria, le turbolenze del mondo arabo-musulmano nel suo insieme, sono un fattore grandemente destabilizzante. L’onda del conflitto si sprigiona in terra d’islam e si spinge oltre il Mediterraneo, i Balcani, il Caucaso.
A questo fenomeno molti governi europei hanno risposto limitando la libertà religiosa, come mostra il tasso crescente di restrizioni governative. Ne risulta una contraddizione fondamentale tra l’istinto di reagire agli scontri religiosi imbrigliando i credenti e i principi liberaldemocratici europei che quella libertà vorrebbero protetta da uno Stato discreto e imparziale. Su piccola scala, è questo il senso delle recenti polemiche sulla decisione del Tar della Lombardia di ritenere illegittimo il piano per il governo del territorio del comune di Brescia, in cui si disponevano spazi per le chiese cattoliche ma non per le moschee.
Su scala più grande, è forte il rischio di una politica schizofrenica sulla libertà religiosa dell’Unione Europea, che preme su Vietnam e Pakistan perché la morsa governativa venga allentata, ma tollera al suo interno le politiche anti-sette di Parigi, l’ostilità di Budapest contro le Chiese sgradite al governo e il patto tra Ankara e Berlino per il controllo dell’islam tedesco; sicché l’Unione e le cancellerie europee finiscono per legittimare gli stessi argomenti di cui ci si serve a Pechino e a Hanoi per sbattere in galera i redentoristi.
Il Rapporto del Pew Center sfida dunque gli europei a cercare un equilibrio coerente tra principi di libertà e realtà sociale: in Europa e ovunque si trovi l’Europa. Non c’è altra strada se vogliamo spezzare la spirale di misure restrittive e conflitti religiosi.