Massimo Gaggi, La Lettura - Corriere della Sera 26/1/2014, 26 gennaio 2014
E IL ROBOT PREPARA COCKTAIL E FA LA GUERRA
Per non soccombere agli automi che facilitano la nostra vita ma si prendono, anche, i nostri lavori, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, docenti del Mit di Boston e autori di The Second Machine Age , un saggio appena arrivato nelle librerie americane, propongono una rivoluzione della scuola: formazione dei giovani spostata verso le materie scientifiche e accumulo delle nozioni, ormai raggiungibile più facilmente con l’aiuto delle macchine, sostituito da un insegnamento più orientato alla creatività, allo sviluppo del pensiero critico e anche dell’empatia. Soltanto così cavalcheremo con successo la tecnologia creando nuovi mestieri e ricchezza diffusa.
In Future Jobs Ed Gordon, storico dell’economia e presidente di Imperial Consulting, propone anche lui una rivoluzione del sistema scolastico, ma aggiunge che non verremo fuori da questa situazione se non trasformeremo da capo a fondo una burocrazia che vuole continuare a funzionare utilizzando i meccanismi di un mondo che non c’è più. E pensa che per spingere le aziende ad attenuare la corsa verso la sostituzione della manodopera con le macchine sia utile consentire agli imprenditori di detrarre dall’imposizione fiscale, oltre agli investimenti in impianti, anche quelli in capitale umano.
Lord Martin Rees, docente di Astrofisica all’Università di Cambridge e astronomo della Regina, la vede un po’ diversamente: i robot sono utili per lavorare in ambienti proibitivi per l’uomo — piattaforme petrolifere in fiamme, miniere semidistrutte da un crollo, centrali in avaria che perdono sostanze radioattive — oltre che per svolgere mestieri ripetitivi. Ma devono restare al livello di «utili idioti: la loro intelligenza artificiale va limitata, non devono poter svolgere mestieri intellettuali complessi. L’astronomo della Corte d’Inghilterra, occhi rivolti più alle glorie del passato che alle speranze e alle incognite di un futuro comunque problematico, propone una ricetta che sa di luddismo. Una ricetta anacronistica ed estrema che si spiega con l’angoscia che prende molti di noi davanti alla rapidità con la quale la civiltà dei robot — della quale abbiamo favoleggiato per decenni e che sembrava destinata a restare nei libri di fantascienza — sta entrando nelle nostre vite. Che i robot stiano uscendo dalle fabbriche lo sappiamo da tempo: il bancomat è un bancario trasformato in macchina, in servizio notte e giorno. In molti supermercati il cassiere non c’è più, sostituito da sensori, lettori di codici a barre, sistemi di pagamento automatizzati. In Giappone e Francia si moltiplicano treni e metropolitane guidati da un computer (è così la nuova Linea 5 della metropolitana di Milano), così come tutti i convogli che si muovono all’interno dei grandi aeroporti del mondo sono, ormai, senza conducente.
Ne abbiamo dato conto ripetutamente, anche sulle pagine della «Lettura». Si torna a discuterne animatamente oggi perché, mentre la politica sembra avere altre urgenze (riforme istituzionali e dei sistemi elettorali in Italia, sanità, contenimento del bilancio federale e politiche per il lavoro negli Usa che seguono, però, ancora meccanismi tradizionali), si diffonde la sensazione che i processi di automazione abbiano raggiunto quello che Brynjolfsson e McAfee chiamano il punto d’inflessione: il punto critico oltre il quale la curva di un certo fenomeno si impenna. Un po’ come il tablet e l’ebook, i cui primi modelli sono rimasti per anni in circolazione nello scarso interesse generale: poi all’improvviso, senza rivoluzioni tecnologiche ma grazie ad apparecchi più raffinati e allo sviluppo del software, è arrivato il boom degli iPad e dei Kindle. Ora tocca all’auto di Google che si guida da sola e al drone col quale Amazon vorrebbe fare dal cielo le sue consegne a domicilio.
Ne parliamo tanto nei giornali e sui siti perché tutto ciò colpisce la fantasia, anche se la sostituzione di autisti e camion delle consegne è ancora lontana, se non altro per motivi regolamentari e requisiti di sicurezza. Ma ci sono molti altri mestieri che il progresso delle tecnologie informatiche sta già meccanizzando con modalità meno spettacolari che non catturano l’attenzione dei media, dai lavori di contabilità alla lettura a raggi X e altre analisi mediche. Andando avanti così, sospirano in molti, nelle fabbriche automatiche ci sarà lavoro solo per l’uomo delle pulizie. Ignorando che sono già diffusi i robottini, figli del Roomba, capaci di pulire ogni angolo dello stabilimento. Mentre il Pentagono studia come sostituire con robot i 50 mila soldati che dovrà eliminare entro la fine del 2015 in base ai tagli di bilancio decisi dal Congresso, ci affascina Monsieur, il nuovo barman automatico costruito da un’industria di Atlanta, in Georgia, che non solo sa qual è il tuo cocktail preferito e lo prepara all’istante, ma raddoppia la dose di alcol se percepisce che sei di cattivo umore.
Già oggi in molti alberghi il cameriere che al mattino serve caffè, tè e cappuccini è stato sostituito da macchine sofisticate. L’idea che Kibo, il robottino oggi usato per intrattenere gli astronauti durante le lunghe missioni nella Stazione spaziale internazionale, verrà sviluppato in due versioni, baby sitter e badante per anziani, può farci inorridire. Ma 50 anni fa chi si fosse sentito dire che sarebbe salito su un treno senza nessuno ai comandi o che avrebbe preso del denaro da una fessura nel muro avrebbe riso. I robot restaurant della Cina e del Giappone con gli automi che ti accolgono alla porta e ti portano al tavolo resteranno a lungo una curiosità e probabilmente esagera in sensazionalismo il giovane tecnologo inglese Ben Way che nel suo libro Jobocalypse , l’apocalisse del lavoro, sostiene che addirittura il 70 per cento degli impieghi oggi svolti dall’uomo saranno automatizzabili in 30 anni.
Terrore tecnologico trasformato in business editoriale? Sì, ma solo in parte, visto che un altro, ben più documentato studio pubblicato di recente dall’università di Oxford fissa a quota 47 per cento il numero dei lavori sostituibili dalle macchine. Anche se ci saranno molte frizioni a rallentare i cambiamenti e i numeri, alla fine, risulteranno minori. È evidente che si è messo in moto un processo imponente che spinge la politica a sfide difficili ma ineludibili: spingere cittadini (ed elettori), già di pessimo umore per il peggioramento delle condizioni economiche generali, a rinunciare a molte delle certezze rimaste, cambiando radicalmente anche il modo di studiare e lavorare. Sfide decisive per il futuro dei nostri sistemi sulle quali la politica è in forte ritardo. E, viste le crescenti difficoltà incontrate dai sistemi democratici nel raggiungere adeguati livelli di consenso politico anche su decisioni relativamente semplici, c’è da chiedersi come ce la caveremo davanti a questioni complesse e controverse che riguardano addirittura l’indirizzo che dovrà essere preso dalla nostra civiltà.