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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

IL BUSINESS SI NASCONDE DIETRO LA FOGLIA

La neve copre il marciapiede su cui s’affaccia il carcere femminile di Lower Manhattan. È bianca quasi come il cartello che regge l’uo­mo infagottato. Barba folta e nera, capelli lunghi, occhiali spessi, il giovane indica la grande scritta: «L’erba è divertente». È il 10 gennaio 1965 e lo scat­to, in bianco e nero, fa il giro del mondo. Perché l’hip­peggiante attivista pro marijuana altri non è che il poeta Allen Ginsberg, volto simbolo della “beat ge­neration” statunitense insieme a Jack Kerouac. Da allora, i suoi versi – come parte delle manifestazio­ni artistiche di quell’epoca “romantica”– saranno associati alla campagna per la cannabis libera. L’er­ba, si sa, sta alla cosiddetta “contro-cultura” come la cravatta ai frequentatori di Wall Street.

Il grande business. Quarantanove anni dopo, però – per utilizzare una metafora matematica – medi e estremi della proporzione appaiono mescolati. A portare avanti la campagna di Ginsberg e compa­gni non sono giovani capelloni dinoccolati ma ma­nager in abito scuro. Il cambiamento di look è ac­compagnato dalla metamorfosi del vocabolario. «Ef­ficienza », «massimizzazione dei profitti», «soddi­sfazione del consumatore» hanno sostituito i vec­chi slogan «trasgressione» e «lotta al sistema». Per­ché la “marijuana libera” ora è soprattutto un gran­de business. L’anno scorso, le vendite a scopi medi­ci della sostanza nei 19 Stati Usa in cui questa era consentita hanno prodotto un ricavo da 1,4 miliar­di di dollari, secondo ArcView, network di investi­tori specializzati in cannabis. E quest’anno il gua­dagno dovrebbe arrivare a 2,34 miliardi. Ancora più rosee le previsioni della National Cannabis Industry Association – rispettabile lobby dei produttori del­la sostanza –: almeno 3 miliardi.

L’onda verde. A far lievitare i profitti è la recente “a­pertura” di Colorado e Washington Dc alla ma­rijuana ricreativa. Dal 1 gennaio, a Denver e dintorni hanno spalancato le porte i primi negozi autoriz­zati di erba. Nei prossimi mesi, ne spunteranno a­naloghi nello Stato di Washington che, come pro­prio il Colorado, ha approvato la decisione in un re­ferendum nel 2012. L’onda verde – e i suoi allettan­ti profitti – hanno “sfondato” anche oltre frontiera: il 10 dicembre, l’Uruguay ha inaugurato il primo mercato nazionale della marijuana legale. Non da solo. Anche qui i nuovi attivisti in giacca e cravatta hanno “dato una mano”. Il multimilionario George Soros ha sostenuto pubblicamente il progetto di Montevideo. Il 10 per cento dei 34 milioni annuali che la sua Open Society dona all’America Latina so­no destinati a promuovere un “nuovo approccio” al­la questione droga. Una dei gruppi statunitensi so­stenuti da Soros negli Usa, la Drug Policy Alliance – principale fautrice della campagna pro liberalizza­zione in Colorado e a Washington– ha inviato un’e­sperta nel Paese per una consulenza nella stesura della legge. Da Soros – dicono i media uruguayani – verrebbero inoltre 60mila dei 100mila dollari per la campagna pubblicitaria per l’impiego “consape­vole” della cannabis. Il nuovo corso ha attratto im­mediatamente prestigiose case farmaceutiche ca­nadesi, cilene e israeliane che – per ammissione dello stesso segretario alla Presidenza, Diego Cá­nepa – hanno preso contatto con il governo, l’uni­co autorizzato a regolarne la produzione, per e­splorare le possibilità di acquistare marijuana da Montevideo. Opzio­ne che la legge non vieta.

I manager della marijuana. Ai pio­nieri, si sommano via via altri “gre­gari”. Il 9 gennaio, lo Stato di New York ha annunciato la legalizzazio­ne della cannabis terapeutica. E i movimenti pro liberalizzazione ac­quistano forza in entrambe le spon­de dell’Atlantico. Per l’entusiasmo dei nuovi imprenditori della ma­rijuana. Jamen Shively, ex manager di Microsoft, è pronto a lanciare la prima catena americana di “coffee shop”. «Un network nazionale e internazionale», ha spiegato lo stesso Shirvely, per un profitto stimato intorno ai «200 miliardi di dollari» quando ovunque negli Usa la cannabis sarà legale. In gioco, però, c’è ancora di più. «Il mercato mondiale sfiora i 500 mi­liardi di dollari», ha concluso. La GrowOp Techno­logy dell’ex manager della Morgan Stanley, Derek Peterson, si è specializzata nella realizzazione di serre per la coltivazione di marijuana a fini tera­peutici dal 2010. Ora, grazie a Colorado e Washing­ton, la società satellite Terra Tech Corp si prepara a fare il salto. «Quest’anno le vendite sono passate da 500mila a due milioni. E ci aspettiamo di crescere ulteriormente il prossimo anno», ha detto Peter­son. Il gigante agricolo Monsanto, specializzato nel­la produzione di sementi geneticamente modifi­cate, nel 2012, ha realizzato un’alleanza strategica con la farmaceutica Alnylam, capofila negli studi sul silenziamento dei geni chiamata “Rna Interfe­rence” o Rnai. La tecnica, come ha affermato il chi­mico di Monsanto, Tom Adams, può avere interes­santi sviluppi in ambito agricolo. Per la produzio­ne di piante alimentari, mediche – e sostengono molti media – di marijuana. I più maligni arrivano a ipotizzare un interesse diretto di Monsanto in U­ruguay, con tanto di smentita ufficiale dell’azienda. In ogni caso, “l’erba-mania” impazza. Anche a Wall Street: le azioni di società del “settore” come Medi­cal Marijuana, Growlife, Cannabis Science, Hemp Inc, Tranzbyte, Greengro Technologies hanno avu­to incrementi a due cifre. Quelle di Medbox – che produce erogatori per la cannabis – sono passate in una settimana da 10 a 28,67 dollari. L’amministra­tore delegato di ArcView, Troy Dayton, l’aveva det­to: la cannabis «è la prossima grande industria a­mericana ». Non stupisce dunque che il 29enne Justin Hartfield abbia raccolto 10 milioni di dollari dagli investitori per creare la sua Emerald Ocean Capital. «La ma­rijuana diventerà popolare come la birra». Hartfield non ha dubbi: se l’attuale fatturato delle vendi­ta clandestina della marijuana si stima intorno ai 35-45 milioni, nei prossimi dieci anni «arriverà a 150, il doppio del business del ta­bacco».

Il rischio di una nuova Big To­bacco. Il tabacco, appunto. Kevin Sabet, direttore dell’istituto di po­litiche delle droghe dell’Univer­sità della Florida e presidente del gruppo Smart Approaches to Ma­rijuana (Smart), contrario alla le­galizzazione, non si stanca di ripeterlo: la nascente industria della marijuana diventerà una nuova Big Tobacco. «Più smerci più guadagni. E per incre­mentare le vendite devi attrarre i consumatori, fa­cendogli credere che il tuo prodotto, la marijuana, sia non solo innocua ma salutare – spiega il dottor Sabet ad Avvenire –. Proprio come facevano 50 an­ni fa i “signori del tabacco”. Da qui l’impiego di con­fezioni ammiccanti e il martellamento pubblicita­rio ». Washington e Colorado consentono gli spot pro-marijauna purché lontani da luoghi e riviste fre­quentate dai ragazzi. Qual è, però, la “giusta distan­za?”. Non è facile marcare confini, anche perché gli adolescenti sono una fascia chiave del mercato del­la cannabis. «Proprio come per le sigarette. Fino al giro di vite, i più giovani sono stati “bersagli” privi­legiati di Big Tobacco», aggiunge Sabet. A dimostra­zione, il sito di Smart riporta una serie di pubbliche dichiarazioni fatte produttori di tabacco ai “tempi d’oro”. Una per tutte. «Se non vendiamo ai bambi­ni, in 30 anni saremo fuori dal mercato», diceva il nu­mero uno di Liggett Group negli anni Novanta. Del resto, come dice il proverbio: il denaro non ha odo­re. Nemmeno di erba.