Loris Zanatta, Il Messaggero 26/1/2014, 26 gennaio 2014
TORNA L’INCUBO ARGENTINA
IL CASO
Le spiagge di Mar del Plata e Punta del Este brulicano. Ma a vacanze finite, gli argentini faranno i conti con una realtà sgradevole. Quelli che le ferie le hanno fatte, poiché gli altri hanno già iniziato: a Cordoba coi violenti saccheggi ai supermercati, nella Capitale coi giorni e giorni senza luce in tanti quartieri. E la realtà è quella di cui tutti parlavano da tempo: el modelo, la politica populista di cui i Kirchner sono andati fieri, fa acqua da tutte le parti. Lo dicono i dati macroenomici, il rigoglio del mercato parallelo delle divise, il tasso di inflazione truccato dal governo e secondo in America Latina soltanto a quello del disastrato Venezuela. Lo confermano il tracollo delle imprese argentine quotate a Wall Street e la svalutazione del peso: del 34% in appena 24 giorni. Come non guardare con apprensione a quel che accade laggiù, alla “fine dal mondo”? L’Argentina fa paura. L’ultimo suo crollo è di appena 13 anni fa e la portò a dichiarare il default.
TOTEM IDEOLOGICO
Non che tutto sia perduto. Anzi: nulla sarebbe perduto se il governo argentino non avesse fatto del modello che sta colando a picco un totem ideologico. L’Argentina è infatti un paese ricco e anche se l’economia globale ha rallentato, le condizioni che ne hanno spinto la crescita sussistono. Le entrate per le esportazioni di soia, il suo oro verde, le garantiscono invidiabili margini di manovra. Eppure nulla fa pensare che la presidente Cristina Fernández de Kirchner sia pronta a riconoscere l’evidenza: che il problema non è l’economia, ma come l’ha governata, a suon di controlli statali su tutto e tutti.
Ma non andava a gonfie vele? L’Argentina non s’era risollevata dal baratro? Non cresceva a ritmi cinesi? Non difendeva sovranità nazionale e giustizia sociale? Bastava un po’ di curiosità per vedere che le cose stavano altrimenti; e che l’Argentina stava replicando il solito dejà-vu. Molti però hanno bevuto il relato, la narrazione “progressista” del governo. Eccoci ora alla resa dei conti: lo stesso paese che col suo crollo scoperchiò le pecche del neoliberalismo, mette per primo in piazza quelle del populismo. Perché quel che avviene in Argentina non è così difficile a spiegarsi. È il coerente sviluppo di un’antica storia, tanto che lo stesso partito, quello peronista, e grosso modo gli stessi elettori, fecero dell’Argentina un modello liberista e ne hanno fatto poi un modello statalista. La storia è quella della formica e della cicala. Qualcuno dirà che i tremori argentini annunciano quelli delle economie emergenti. Ma non è vero. C’è tra di esse chi è stata formica e ha profittato degli anni di crescita per investire, rinnovare infrastrutture, risanare i conti pubblici, accantonare risorse per i tempi duri, attrarre capitali esteri. E c’è chi ha fatto come l’Argentina: la cicala. Ha speso quel che aveva, lasciato languire le infrastrutture, usato la banca centrale come un bancomat, lasciato correre l’inflazione e messo in fuga gli investitori con tirate nazionaliste e bisticci internazionali.
Tale panorama sarebbe meno grave se a renderlo più roseo fosse quel che si vede affacciandosi sul cortile delle condizioni sociali, o su quello politico. Ma così non è. Anzi, per un governo che invoca a tamburo battente la “giustizia sociale”, quel che si vede è sconfortante. Lungi dal contrarsi, le villas miserias prosperano e tanta marginalità fornisce manodopera ai cartelli della droga e clientela politica al governo. Ben poco ha fatto la crescita per riassorbire le disuguaglianze sociali: il 27% della popolazione è povero, il 6% indigente, il 46% lavora in nero. Il progetto era di rifondare lo Stato demolito dal neoliberismo. Ma dalla scuola alla sicurezza pubblica, dalla amministrazione alla gestione di servizi e imprese, le sue performances sono pessime. E soprattutto è più che mai in auge lo Stato clientelare, che accumula risorse e funzioni per premiare i clienti e punire i dissidenti.
PREPOTENZA
Fintanto che l’economia aveva il turbo, ciò passava in secondo piano per gran parte degli elettori: sia quelli benestanti, felici di tanto credito e consumi; sia quelli delle periferie, pronti a scambiare assistenza pubblica con fedeltà politica. Man mano però che i nodi economici sono venuti al pettine, anche quelli politici lo hanno fatto. Di certo, in tal senso, non ha aiutato la prepotenza di un governo sempre in agguato per tacitare la stampa ostile, usare come un manganello la memoria storica. I dati elettorali parlano chiari: il trionfale 50% ottenuto da Cristina Kirchner nel 2011 si era già ridotto di un 20% alle elezioni legislative di due anni dopo. Alle presidenziali del 2015 mancano due anni ma il decennio kirchnerista si può dire tramontato. Da qui ad allora l’Argentina rischia di deragliare. In pole position si staglia intanto la figura del nuovo leader: peronista anch’egli.