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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

LORENZA MAZZETTI


Lei era la ragazza degli anni Cinquanta. Un casco di capelli scuri, su un volto commovente e la Metamorfosi di Kafka in una tasca del montgomery. Singolare impasto di inquietudine intellettuale e bisogno di affetto. Era a Londra, prima che diventasse Londra. Prima dei Beatles, prima della minigonna e della Swinging London.
Non si vedeva mai il sole e la gente non osava allontanarsi dai ricordi della guerra. «Arrivai lì nel 1954. Ero ricca, o almeno credevo di esserlo. Curiosa e sicura di me, niente mi avrebbe fermato. Mi ritrovai nel giro di poco tempo povera e incerta. Le ambizioni scolorarono nella fitta nebbia di quella città». Lorenza Mazzetti è davvero un caso. Due film, due libri, uno dei quali in uscita: Diario londinese (Sellerio), che racconta le peripezie di una giovane che, insieme a pochi altri, cambiò il volto del cinema inglese. Oggi Lorenza dipinge. Lo fa da anni: paesaggi che rimandano alla sua Toscana, è lì che tutto ha inizio e che ha raccontato in un precedente libro: Il cielo cade.
Cosa succede quando il cielo ti crolla addosso?
«Non hai scampo. Neanche il Padreterno può puntellarlo. Viene giù. E ti schianta. Senza ammazzarti. E pensare che il cielo quasi mai è chiamato in causa come fonte dei tuoi guai».
Ma il cielo è solo una metafora.
«Per una bambina non faceva differenza. Posso solo dire che ho saldato i miei debiti con la vita, prima ancora di viverla».
Così in largo anticipo?
«Sono stata precoce nel dolore. Restammo orfane con mia sorella a quattro anni. Morì prima nostra madre. Il chirurgo ipotizzò che una delle due teste fosse un tumore. Invece era un parto gemellare. Con nostro padre vivevamo a Roma. Faceva l’assicuratore. Perì in un incidente. Restammo per un po’ con il suo amico Ugo Giannattasio, un artista futurista. Poi, a sei anni, fummo accolte dallo zio: Robert Einstein, cugino di Albert».
Qual era la sua storia?
«Era fuggito dalla Germania. Trasferì in Italia la sua fabbrica di radio. Quando cedette l’azienda convertì il ricavato in una grande tenuta in Toscana, appartamenti e ville. Fece investimenti interessanti. Aveva una moglie e due figlie. A me e a Paola ci sembrò di rinascere. Ricordo l’esultanza per i prati, i contadini, le gite. La serenità che tornava. Non distante da noi, a Sesto Fiorentino, abitava Maja, la sorella di Albert Einstein. Maja riceveva artisti e scrittori. Aveva sposato il pittore Paul Winteler, la cui sorella, Anna, si unì allo scienziato Michele Besso, un fisico che avrebbe avuto un lungo carteggio con Albert Einstein».
Era una élite di personaggi internazionali.
«Che si mescolava con quella fiorentina e italiana. Ricordo Giacomo Balla che fece anche un bellissimo ritratto di Luce, una delle due figlie dello zio Robert. Poi, all’improvviso, il cielo venne giù».
Come accadde?
«Fu durante la ritirata dei tedeschi. Avevano occupato parte della villa dello zio. Si respirava un’aria stranamente gradevole. Ci sentivamo un’aristocrazia al riparo dalla tempesta. Gli ufficiali erano gentili. Le interminabili partite a scacchi. E la musica: Mozart e Beethoven. Poi, quando il comando cominciò a partire, qualcuno avvertì lo zio che i tedeschi lo avrebbero arrestato. Non voleva crederci né lasciarci. Ma alla fine decise di fuggire e di nascondersi nel bosco. La villa si era svuotata. Gli inglesi bombardavano a qualche chilometro. Ci rifugiammo nella grande cantina. Arrivarono due soldati tedeschi, chiedendo dello zio».
E voi?
«Dicemmo che era dovuto partire. Sorrisero. Promettendo di tornare. E tornarono il giorno dopo. Erano molti di più. Chiesero ancora dello zio, poi delle figlie e della moglie. Le trascinarono sull’aia. Dopo un po’, mia sorella e io, sentimmo sparare. Ci
affacciammo, piene di angoscia. Vedemmo i tre corpi riversi nella polvere. Costrinsero noi e i contadini ad andare via. Appiccarono
il fuoco alla villa».
E suo zio Robert?
«Apparve improvvisamente, allarmato dalle fiamme. Lo vedemmo correre mentre il camion dei tedeschi si allontanava. I contadini lo fermarono. Sembrava fuori di sé. Implorava che gli dessero una pistola. Piangeva. Voleva morire. Lo condussero in quel che restava della villa. Lo calmarono. Il medico prescrisse psicofarmaci. Fu con quelle pillole che si suicidò, lasciandoci una breve lettera».
Cosa diceva?
«Chiedeva di perdonarlo per essere stato un po’ noioso e a volte burbero. Dovevamo ricordare lui, le due cugine, la zia e gli insegnamenti che ci diede. Ci designò eredi universali».
Perché i tedeschi lo volevano morto e perché si accanirono sui familiari più stretti?
«La storia non ci dà chiarimenti sull’animo umano. Fu trovato un foglio attaccato a un albero: “Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei”. L’eccidio fu anche la ritorsione contro il cugino Albert. Era l’agosto del 1944. Ci trovammo nuovamente sole».
Passano dieci anni e decide di andare a vivere a Londra. Perché?
«Non ce la facevo a rimanere in Italia. Quelle morti ancora mi tormentavano. Pensai che per un po’ mi avrebbe fatto bene cambiare aria».
Che città trovò?
«Grigia e nera. La nebbia si impastava con la fuliggine dando alla città un’esaudita vocazione alla tristezza. La gente era perbene, composta e ossequiosa verso la regina. Tutti andavano a letto molto presto. Ogni casa ospitava inquilini che venivano un po’ da ogni dove. Trovai un alloggio e durante quel soggiorno appresi di non avere più soldi. Il nostro tutore e amministratore aveva dilapidato il patrimonio. Fui invitata a lasciare la casa».
E a quel punto?
«Trovai un lavoro da cameriera. Nel tempo libero disegnavo. Mi piaceva. Un giorno decisi di presentarmi con alcuni lavori alla Slade School of Fine Art. Trovai un direttore, piuttosto anticonformista, che avevo scambiato per un inserviente. Si incuriosì alle mie cose e alla fine decise di accogliermi».
Com’era quell’ambiente?
«Insolito. Eravamo motivati. Talentuosi. Stimolati da presenze straordinarie. Seguivo la storia dell’arte con Rudolf Wittkower, un tedesco che da Berlino si era trasferito all’Istituto Warburg di Londra. Le sue lezioni erano affollatissime. Tra gli insegnati di pittura c’era Lucian Freud».
Si dice che fosse un accanito donnaiolo.
«Con noi era abbastanza sfuggente. Si limitava, con l’immancabile sigaretta tra le dita, a visionare i nostri lavori. A volte lo raggiungeva Francis Bacon. Credo fossero amici. Bacon si faceva notare per uno spolverino di pelle nera che faceva tanto “Gestapo”. Ma non ho mai assistito a una sua lezione. Peccato. C’erano anche Sutherland e Claude Rogers, al quale chiesi di interpretare K».
Come finì a occuparsi di cinema?
«Riposte in uno stanzino c’erano le attrezzature da film. Avevo in mente da tempo l’idea di realizzare un corto su Kafka e in particolare sulla
Scelsi la location esterna. Chiesi ad alcuni amici dell’università se volevano prestarsi a recitare una parte e in gran segreto partii con il progetto».
Ma non aveva nessuna esperienza.
«Mi convinsi di essere regista e non di avere bisogno di lezioni. Adoravo il cinema. A Firenze, in un piccolo cineclub, avevo visto i film di Jean Vigo, di Rossellini, di De Sica. Erano tutto il mio mondo visivo».
Perché scelse La Metamorfosi?
«A me interessava relativamente la vicenda dell’uomo che si trasforma in insetto. Piuttosto, mi colpiva l’innocenza di Gregor Samsa che il mondo condanna. Era questa l’idea e quando la realizzai scoppiò un bel casino».
Cosa accadde?
«Il direttore mi convocò. Accusandomi di aver firmato a nome dell’Istituto alcune cambiali, con cui pagare la pellicola, i costumi, il montaggio, e che per quelle sarei andata in prigione. Risposi che avrei affrontato la pena. Serenamente. Mi guardò stupito. “Si può almeno vedere il film?”, chiese. E poi aggiunse: “Se piacerà agli studenti mi rimangio la denuncia”. La sera dopo fu organizzata la proiezione. Fu un successo. Lucian Freud venne a congratularsi. Era la prima volta che lo vedevo sorridere. Buon segno. La mattina il direttore mi convocò nuovamente. Disse che il capo del British Film Institute voleva conoscermi e di andare da lui con un’idea. Fu così che nacque Together. Coinvolsi Tony Richardson, John Fletcher, Lindsay Anderson, Michael Andrews, che aveva interpretato splendidamente Gregor in K, Eduardo Paolozzi. Ci vedevamo in un pub per discutere il da farsi».
Qual era l’idea del film?
«La storia di due giovani sordomuti in un quartiere povero di Londra. Portai il film alla prima mostra del Free Cinema. Partecipavano, tra gli altri, Gregory Markopoulos, Kenneth Anger, John Cassavetes. Fu un successo. Lindsay, qualche giorno dopo, mi annunciò che il film avrebbe dovuto rappresentare l’Inghilterra a Cannes. Lo guardai incredula e terrorizzata. Dissi che non potevo presentarmi conciata in quel modo. Non preoccuparti, replicò ridendo, faremo una colletta tra gli amici per acquistarti un vestito».
E andò a Cannes?
«Sì. La cosa più inaspettata è che Together fu premiato con il Palmares dell’Avanguardia».
Le si apriva una carriera. Perché in seguito non ha più fatto cinema?
«Tornai in Italia per una vacanza e, soprattutto, per rivedere la mia gemella. Non mi aspettavo di ripiombare nei vecchi incubi. Cominciarono a riaffacciarsi i fantasmi dell’infanzia. Volevo fuggire dalla bellezza della Toscana, dalle urla delle SS, dagli spari. Era la ragione per cui ero andata a Londra. Pensavo di essere guarita. Ma tutto quello che di bello mi era accaduto sparì in un momento. Mi ammalai di nervi. Tutte le notti avevo la sensazione di essere fucilata».
Poteva tornare in Inghilterra.
«Non sarebbe servito. Dovevo farcela stando in Italia. Mia sorella era legata a Vincenzo Loriga, un allievo di Jung. Fu lui a indicarmi il terapeuta che mi prese in cura: Barrie Simmons. Diceva: non ti chiedo cosa pensi, ma cosa senti. Capì che avevo represso tutte le mie emozioni. Non potevo più, ad esempio, ascoltare musica».
Perché?
«La mia mente tornava ai giorni trascorsi in villa con lo zio Robert che suonava Mozart e Beethoven, alternandosi al piano con un ufficiale tedesco. Mi saliva un disgusto dal cuore. Non riuscivo più ad ascoltare quella musica. Era ancora vivo il trauma provocato dalla furia della violenza. Fu Barrie a sbloccarlo. In quei mesi cominciai a scrivere la mia storia. La raccontai con gli occhi di una bambina. Quando il libro fu finito mi sentii, per la prima volta, dopo molto tempo, invasa dalla felicità».
Era guarita.
«Sì. Inviai il manoscritto a diverse case editrici importanti. Fu rifiutato da tutte. Ma non mi importava. Mi ricordai di Cesare Zavattini che avevo conosciuto a Cannes. Glielo spedii e dopo un po’ mi rispose entusiasta. Passò il libro ad Attilio Bertolucci che lo fece pubblicare da Garzanti. Nella sorpresa generale
Il cielo cade vinse il Viareggio. Fu Giacomo De Benedetti, che lo aveva particolarmente amato, a imporlo».
Lei ha il raro dono di fare spesso centro al primo colpo.
«Non so se sia fortuna o talento, o forse entrambe le cose. Certo, non ho mai pensato di fare qualcosa di continuativo, soprattutto nel cinema. Mi spaventa tutta l’organizzazione: il set, gli attori, i soldi che necessitano. Per me cinema era scendere in strada e filmare. Punto».
E i suoi vecchi amici di allora?
«Spesso sono venuti a trovarmi a Roma. Nel frattempo mi ero unita a Bruno Grieco. Ogni anno d’estate passava una settimana con noi Lindsay, c’era anche Richard Harris. Vennero Rod Steiger e Claire Bloom, Agnès Varda. Si divertivano a pensare che fossi ancora l’enfant prodige che ero stata. Ma quello era il passato».
Bruno era il figlio di Ruggero Grieco, uno dei fondatori del Pci?
«Sì, siamo stati insieme per 15 anni. È stato bello perché bello fu il comunismo. Poi Bruno morì. E il comunismo tramontò. Mi dedicai al teatro delle marionette. Per anni ho allestito spettacoli per i bambini. Con gran divertimento. Fino a quando mi accorsi che a frequentare il teatrino erano sempre più gli adulti e meno i bambini. Anzi, di bambini non ne vennero più. Dedussi che avevano altri interessi. La creatività, se ancora si pratica, è altrove. Ma non so dire più dove. Ogni tanto penso alle mie marionette. E un’indicibile tristezza mi assale. Le porterò con me. L’ultimo giorno. Come gli egizi facevano con le loro cose più care. Saranno il mio miele, le compagne dalla bocca stretta e dalla voce storta».