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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

GLI ULTIMI GIORNI DELL’ARCIPELAGO LAOJIAO


PECHINO «Preferirei essere morta. Se resisti a certe umiliazioni, la vita poi non ha più senso». Jiang Chengfen ha quarant’anni, ne dimostra settanta ed è appena tornata a casa a Neijiang. Tra pochi giorni passerà il capodanno lunare in famiglia, nel Sichuan. «Ma ho conosciuto l’inferno — dice — e ho abolito la felicità». Era una contadina, ha osato protestare contro i funzionari che le avevano requisito la risaia per costruire un palazzo. È una tra gli ultimi prigionieri liberati dei laojiao cinesi.
I “campi di rieducazione attraverso il lavoro” furono aperti da Mao Zedong nel 1957 per punire “controrivoluzionari” e “sovversivi”. Nell’immenso arcipelago gulag cinese, in cinquantasei anni, sono stati rinchiusi senza processo circa 1,7 milioni di cittadini. Gli “inghiottiti” finiti nelle fosse comuni, secondo le organizzazioni umanitarie, sarebbero decine di migliaia. In novembre il plenum del Partito comunista ha annunciato la chiusura dei laojiao.
A fine dicembre il Congresso nazionale del popolo ha ratificato la decisione. Entro gennaio i trecentocinquanta campi, prigioni per torture e lavori forzati, saranno ufficialmente chiusi.
«Sono rimasta nel campo della contea di Zhizhong — racconta Chengfen — un anno e tre mesi. Avrei dovuto starci quattro anni. Altri prigionieri erano lì da quasi dieci. L’altra mattina una guardia mi ha portato al cancello. Mi ha fatto uscire, senza una parola. Ho capito che ero libera».
I laojiao sono arrivati a essere oltre seicento, disseminati ovunque. Nel 2011 i prigionieri della polizia erano ancora 450mila. Ai primi oppositori anti-maoisti, si sono aggiunti dissidenti, fedeli di varie religioni, cristiani del Falun Gong, firmatari di petizioni contro le autorità. A essi sono stati mescolati ladri, prostitute, tossicodipendenti, criminali comuni, giocatori d’azzardo e persone definite “malate di mente”. La “rieducazione” consisteva nei lavori forzati: tra 12 e 15 ore al giorno in miniere, fabbriche, laboratori artigianali, aziende agricole. La Cina, per oltre mezzo secolo, si è assicurata una massa di schiavi che potevano essere sfruttati, torturati e uccisi, lasciati morire di fame e di freddo.
«La sveglia nei dormitori — dice Chengfen — suonava alle 6. Eravamo in dodici, in celle di nove metri. Dieci minuti per lavarci, in bagni per 200 prigionieri, mezz’ora a piedi per arrivare alla mensa. Altri dieci minuti per un panino al vapore, in sale per 900 detenuti, in silenzio. Tra le 8 e le 20 dovevamo assemblare parti di televisioni, o di automobili. Chi apriva bocca veniva picchiato, o condannato a stare in piedi fino a mezzanotte».
È la prima volta che l’ex prigioniero di un laojiao, non coperto da pseudonimo, racconta la giornata-tipo nei campi comunisti ispirati ai lager nazisti. Chi non è morto sconta il senso di colpa di un destino meno spietato rispetto a quello dei compagni: migliaia di fosse comuni, in tutta la Cina, ospitano i resti di chi non ce l’ha fatta.
«A pranzo mangiavamo una zuppa o una fetta di zucca. Il cibo era sporco, emanava un odore strano, l’acqua era scura, piena d’insetti». Le guardie passavano il tempo a giocare a mahjong, o davanti alla tv. L’ordine era assicurato dall’esercito dei du jin, gli “individui d’oro”. «Venivano registrati come drogati — dice Chengfen — ma erano gangster, o criminali. Per assicurarsi un trattamento di riguardo davano ordini impossibili e punivano. Chi resisteva veniva pestato, condannato al digiuno, privato del sonno. Per ottenere pietà non restava che la corruzione. Qualcuno riusciva a farsi mandare soldi da casa».
Da anni i laojiao non erano più prigioni politiche, ma centri di sfruttamento e ricatto appaltati a funzionari locali e polizia. Le vittime dei lavori forzati pagavano fino a 1650 dollari, ogni sei mesi, per vitto e alloggio. La libertà costava settemila dollari: i parenti dei prigionieri si consegnavano agli usurai, complici dei carcerieri.
«Alle 20 venivamo messi davanti a un programma tv scelto dalle guardie. Altri scrivevano alla famiglia. Ho scoperto poi che le lettere servivano per accendere le stufe. Non si poteva parlare: il silenzio è stato il simbolo del nostro annullamento personale. Alle 21 dovevamo sederci sulle brande. La luce restava accesa tutta la notte. Ci guardavamo per capire chi veniva aggredito dalle malattie».
Negli ultimi trent’anni la crescita economica cinese è esplosa anche grazie al basso costo del lavoro. Gli arresti di decine di migliaia di cinesi, ridotti in schiavitù, sono stati condannati invano. Pechino ha definito le accuse «ingerenze indebite in affari interni». La scintilla che ha costretto i nuovi leader a chiudere i campi è partita nell’agosto 2012 a Yongzhou, nello Hunan.
«Mia figlia di undici anni — ricorda Tang Hui — era stata violentata da sei uomini. La obbligarono a prostituirsi. Li ho denunciati. Non ricevemmo alcun risarcimento, i funzionari cittadini insabbiarono il caso. Ho chiesto giustizia a Pechino: la polizia mi arrestò, diciotto mesi di laojiao». Grazie al web, anche la Cina è insorta. La storia della madre perseguitata dal partito-Stato per aver difeso la figlia stuprata divenne uno scandalo mondiale. «Fu allora — dice l’avvocato Li Fangping, difensore di dissidenti e povera gente — che le autorità compresero che la repressione era sfuggita di mano». Chiudere i campi di lavoro ideati da Mao non era facile. Gli schiavi sono stati una miniera d’oro per la polizia e per i colossi pubblici, l’arma istantanea del regime.
«Mio marito — dice Lui Fengming, professoressa in pensione — aveva postato su internet un appello per la legalità. Fu rinchiuso in una fattoria- prigione della Mongolia interna. Per avere notizie sono rimasta in piedi cinque giorni davanti al cancello di un laojiao.
Alla fine uscì il capo delle guardie. Scorreva con il dito i nomi scritti su un quaderno. Si fermò, pronunciò il nome di mio marito. Pensavo stesse per rivelarmi dov’era. “Morto — disse — un mese fa”».
Ora che i campi chiudono, affiorano i racconti della grande tragedia ignorata.
Le strutture smantellate restano inaccessibili.
I funzionari tacciono. Ogni giorno migliaia di prigionieri vengono liberati e accompagnati a casa dagli ex carcerieri, con l’ordine del silenzio. Anche i governi stranieri evitano di chiedere la verità: la nuova forza economica dell’autoritarismo cinese spaventa le democrazie occidentali in crisi. I laojiao ufficialmente sono in corso di “riconversione”: diventano comunità di recupero dalla droga, prigioni per condannati dai tribunali, istituti psichiatrici. Avvocati e organizzazioni internazionali lanciano l’allarme. «Pechino cambia le insegne — dice Shen Tingting, direttrice di Asia Catalyst — e smantella gli edifici più vecchi. La repressione violenta, necessaria alla stabilità del regime, però non finisce. Invece che nei campi di lavoro, chi pone problemi scompare in carceri nere e comunità per prostitute. Il rischio è rendere abusi e torture formalmente tollerabili». I nuovi “campi di custodia e di educazione” sono luoghi per il lavaggio del cervello.
Ren Jianyu, 27 anni di Chongqing, è finito in un ex laojiao per aver diffuso in Rete «informazioni negative». Il tribunale lo ha giudicato «malato di mente». Ha trascorso un anno in un blocco di cemento a Xinhe, a nord di Pechino. «Per guarire — dice — dovevamo stampare biglietti d’auguri di Natale, esportati in Europa e negli Usa. L’altra mattina una guardia vestita da infermiere mi ha portato fuori e mi ha lasciato alla fermata della metropolitana perché non ho più una casa».
Per il governo ciò che conta è aver abolito detenzioni prive della sentenza di un tribunale. I giuristi ricordano però che in Cina la magistratura non è indipendente. È al servizio del potere: ognuno può essere arrestato e condannato per un’accusa qualsiasi. «Chiudere i campi — dice Yang Xiangui, autore della storia censurata sulla strage di Jiabiangou, dove sono morti 1500 detenuti — apre un vuoto. Non credo che il Partito pensi realmente di colmarlo con qualcosa di legale, di trasparente, o rispettando le persone».
I laojiao chiudono, ma a nessuno è permesso di visitarli. Presentare domanda espone alla rappresaglia dei funzionari. Gli ex detenuti vengono minacciati: raccontare comporta il rischio di una condanna nelle nuove strutture. Anche migliaia di ex carcerieri, in queste ore, vengono trasferiti e riformati, come “assistenti medici e custodi dei penitenziari”. La Cina di miserabili e schiavi resta off-limits.
Guo Qinghua ha 46 anni e fino a marzo puliva le latrine del comitato permanente del Congresso del popolo. Un buon posto, a Pechino. Ha avuto problemi per la paga ed è stata l’ultima a essere ufficialmente deportata in un laojiao.
È finita a Daxing, sei edifici per settecento prigionieri. Li hanno chiusi martedì. «Ora sono libera e posso scegliere tra la disoccupazione e l’assemblaggio di giocattoli nel nuovo centro anti-droga. Sono comunque condannata a morte. L’inaccettabile è diventato presentabile, vince sempre il più forte». Non esistono dittature cattive che si trasformano in dittature buone. Ci sono soli nomi che fanno vergognare che all’improvviso diventano nomi pronunciabili senza vergogna. Anche Guo Qinghua, come Jiang Chengfeng, resta una prigioniera libera, vittima dell’eterna giornata cinese nell’ultimo ex laojiao.