Enrico Sisti, La Repubblica 27/1/2014, 27 gennaio 2014
FERGUSON
La sua ultima partita da manager del Manchester United, il 19 maggio del 2013, è stato un pirotecnico 5-5 con il West Bromwich. Alla fine non c’era tempo né per i sorrisi né per le lacrime. Chissà perché, ma gli venne in mente il primo gol della sua gestione tecnica, segnato dal danese Sivebaek il 22 novembre del 1986.
La decisione di lasciare Sir Alex Ferguson l’aveva presa sei mesi prima per due ragioni fondamentali: perché la sorella della moglie Cathy, Bridget, si era ammalata gravemente e perché aveva appena perso la Premier all’ultima giornata e «non ce la farei a sopportarlo di nuovo». Al suo posto sarebbe arrivato David Moyes dall’Everton: suo padre David Sr. aveva allenato quel Drumchapel in cui Sir Alex aveva giocato sino al ‘57. Non erano bastati 170 giorni per consentire all’ambiente di farsene una ragione. Persino i seggiolini dell’Old Trafford ebbero qualcosa da eccepire. Collettivamente ci si stava preparando al dopo, individualmente nessuno voleva ammettere che ci sarebbe stato bisogno di un dopo. I fatti erano tuttavia inoppugnabili: Sir Alex Ferguson concludeva la propria carriera di allenatore, padre, factotum, simbolo, psicologo, amico, tattico, talent scout, pensatore, innovatore, polemista. Aveva fatto la storia come Bill Shankly al Liverpool, Brian Clough al Nottingham Forest e, prima di lui, Matt Busby al Manchester United. Forse di più. «Notai che alcuni dei miei ragazzi non sapevano come affrontare la cosa perché erano sempre stati con me, alcuni per vent’anni. Osservavo il loro sguardo assente: come sarebbe stato ora?». L’addio di Ferguson (nominato la settimana scorsa ambasciatore degli allenatori per l’Uefa) equivaleva a quello di un padre che decide di abbandonare
casa senza una spiegazione accettabile per gli altri membri del nucleo familiare: «Alcuni di loro non avevano avuto altri allenatori oltre a me».
Tra queste pagine il calcio, il Manchester United, l’Old Trafford, la Stretford End, i 38 trofei in 27 anni, i Cantona, i Beckham, i Giggs, l’intera classe del ‘92, i Ronaldo, sono soltanto la vernice romantica e agonistica di un articolato e struggente romanzo del Novecento britannico, scozzese e al tempo stesso universale come il volto di Sean Connery. L’autobiografia di Sir Alex Ferguson che mercoledì esce in Italia per Bompiani con un’introduzione di Hanif Kureishi (La mia vita, 540 pagine, 18 euro) ripercorre l’esistenza commovente e complessa di un «figlio degli anni di Clement Attlee», l’uomo simbolo del laburismo del dopoguerra. Ferguson era un ragazzo qualunque proveniente dalla periferia di Glasgow, permeato di povertà, di entusiasmo e di illusioni. La combinazione di questi elementi costituiva l’unità di misura del tempo di quei tempi, in cui i sogni non si mescolavano quasi mai alla realtà eppure spesso funzionavano di più: per ricostruire, ricorda Sir Alex, a volte era meglio chiudere gli occhi, «come quando colpisci la palla di testa». Scritto insieme con il «ghost writer » Paul Hayward, La mia vita è un «bildungsroman”, è la storia orale dei nostri giorni ammesso che sia possibile estendere l’espressione “nostri giorni” sino all’inizio degli anni Cinquanta, quando il giovane Alex, cresciuto in un mondo in cui i valori erano «il duro lavoro, la frugalità e una timorata lealtà alla famiglia», comincia a verificare come sappia di sale lo pane altrui: una sensazione ambigua ma stimolante che soltanto la conquista dell’Fa Cup nel ‘90, mentre era a un passo dal licenziamento per mancanza di risultati, avrebbe parzialmente attenuato: «Avevo finalmente qualcosa di mio». Disse a Tony Blair, suo grande amico: «Nel mio lavoro la cosa più importante è il controllo: minacciano il tuo controllo e devi liberarti di loro. I giocatori amano i tecnici duri». Letteratura del territorio, classe operaia senza paradisi, l’odore dei pub che nella sua periferia, a Gowan, si mescolava a quello dell’erba fradicia, al sudore provocato da un allenamento, al pesce del Clyde, alla fatica di dover portare a casa ogni sera uno straccio di pagnotta senza alcuna garanzia che domani sarebbe accaduta la stessa cosa perché non era affatto detto che ci sarebbero state altre pagnotte disponibili: «Non avevamo paura di un’altra guerra: avevamo paura di una pace svuotata di ogni valore». Ferguson gestiva pub, litigava con gli avventori, capitava che tornasse a casa con i lividi in faccia per aver fatto a pugni con qualcuno. «A volte le sconfitte sono il risultato migliore».
Ci sono delle inesattezze. Il libro è stato vivisezionato. Ma il cuore di questo toccante racconto non batte fra i dettagli poco accurati. È nel ritmo di una vita, è in questo andare e venire dai campi, dagli ippodromi a Blair, dalla Champions a quei piccoli, insignificanti giocatori che guadagnavano 6 sterline a settimana. Nel generale sapore di strada e cantieri ognuno troverà il suo momento preferito: la giovinezza, l’Aberdeen che lo strappa al commercio della birra, l’arrivo all’Old Trafford, le paure, i trionfi, gli arbitri, le emozioni, Ronaldo.
Per ringraziarlo, salutarlo e forse, come dice Giggs, «anche per cercare di fermare il tempo», i «ragazzi » gli hanno regalato un Rolex del ‘41 con le lancette posizionate sulle 15.03. L’ora in cui nacque, il 31 dicembre di quell’anno, Alexander Chapman Ferguson, il barista laburista diventato baronetto, statua, mito.