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 2014  gennaio 27 Lunedì calendario

MAGIA DI UN NUMERO 7 CHIAMATO UCCELLINO “IL NOSTRO CALCIO LEALE”


FIRENZE – Hamrim c’è scritto sul citofono di casa, in zona Coverciano. Mi viene un dubbio: che in tutti questi anni abbiamo sbagliato a scrivere Hamrin? «No», dice Marianne, la moglie, «è sbagliato il citofono, ma va bene lo stesso ». Come vanno bene insieme loro, che si conoscono dal 1953 e si sono sposati nel ‘55, prima di trasferirsi in Italia. Cinque figli, otto nipoti e tanti ricordi. Il primo incontro è al ballo del quartiere. Lei lavora in una panetteria, si alza ogni mattina alle quattro. Lui, primo dei quattro figli di Karl, imbianchino, calciatore dilettante e poi allenatore di calciatori, lavora in una zincografia collegata al quotidiano Dagens Nyheter. «Mi piaceva quel lavoro e l’odore dell’inchiostro. E comunque lavorare era indispensabile perché il calcio svedese non aveva aperto al professionismo. All’Aik ci davano cinquanta corone, oggi sarebbe una quindicina di euro, a vittoria o pareggio, niente se perdevamo. Tutti sognavamo l’Italia, dov’erano andati Liedholm, Nordahl, Gren, Skoglund, Selmosson». E l’Italia arriva. Ma prima c’è da dire perché Hamrin inaugura le puntate sulla squadra della memoria. Perché l’ho visto giocare, perché nel 1982 Paolo Rossi diventato Pablito mi raccontò che da Prato andava a Firenze a vedere non tanto la Fiorentina quanto Hamrin. Per imparare le sue finte, le sue astuzie. Perché Hamrin ha indossato per tutta la carriera la maglia numero 7 e non è mai stato espulso.
«E neanche ammonito, mai. Solo una volta ho avuto il 10, contro la Germania, nella sfida decisiva per andare al mondiale del ‘66. Facemmo 1-1 a casa loro e segnai di testa ma poi loro vinsero 2-1 in casa nostra».
A Firenze, dove ha giocato nove campionati e ha messo radici, lo chiamavano Uccellino. Un giornalista della Nazione, Beppe Pegolotti, paragonò la sua corsa al volo di un uccellino, e Uccellino diventò. A Padova, dove giocò una sola stagione, Nereo Rocco lo chiamava Faina. Per gli svedesi è Kurre, da Kurt. È anche il titolo di un libro che abbraccia tutta la sua carriera. Molto ricca di gol: 312 in 515 partite da professionista. Tanti, per un’aletta di 170 centimetri che a Torino avevano chiamato «caviglia di vetro». Ma è vero che a segnalarlo a Gianni Agnelli fu un minatore italiano che lavorava in Svezia o è una leggenda?
«Ma lei se lo vede un minatore che scrive all’Avvocato? La verità è che alla Juve mi segnalò un dipendente di Fiat Svezia. Nelle sedi all’estero c’era regolarmente qualcuno che andava a vedere le partite e, nel caso, segnalava. Mi risulta che così arrivò anche Sivori. Nel mio caso, la Juve mandò a vedermi l’allenatore Sandro Puppo, in Portogallo. Vinse la Svezia 6-2 e già negli spogliatoi Puppo mi chiese: verresti a Torino? Anche
a piedi, gli avrei risposto.
Ma gli dissi che avrei dovuto parlarne in famiglia. E poi arrivai. Mi pagarono 15mila dollari».
E la caviglia?
«Era una frattura del quinto metatarso. Mi pare che El Shaarawy abbia avuto lo stesso problema ed è stato fermo tre mesi. Mi curarono coi fanghi, ad Acqui, e dopo due settimane mi rimandarono in campo. Così, sempre affrettando il recupero, mi feci male quattro volte, ed ero piuttosto demoralizzato. Mi ricordo come fosse ieri la nostra prima notte a Torino, dopo nove ore di volo, aerei a elica, scalo a Copenaghen, arrivo a Milano, auto della società, albergo in centro. E la mattina Marianne apre le finestre e si vedono le Alpi con la neve. Qui è un paradiso, dice. Nordahl e Gren me l’avevano già detto: se hai la fortuna di venire in Italia, restaci. In bianconero avevo esordito a Roma segnando due gol a Lovati e so che piacevo all’Avvocato, ma avevano deciso di puntare sulla coppia Charles-Sivori e come straniero ero di troppo. Così andai a Padova e Rocco, con un suo amico ortopedico, capì qual era il problema del mio piede destro. Con una soletta andò tutto a posto. Segnai 20 gol in 30 partite, c’era una buona intesa con Brighenti, il centravanti, c’era un ottimo regista sudamericano, Rosa, insomma a fine campionato bussa la Fiorentina, che doveva sostituire Julinho».
A Padova abitavate in centro?
«No, avevamo una casetta con giardino a Vigodarzere, sule rive del Brenta, ma andava bene lo stesso, siamo persone semplici. Rocco aveva proibito l’uso dell’auto a chi abitava in città, solo bicicletta o mezzi pubblici. Ma io, stando fuori, ero dispensato. Rocco va e viene spesso nella mia carriera. Mi voleva al Torino, la Fiorentina chiese 30milioni e lui pensò: troppo poco, ci dev’essere sotto una fregatura, e non se ne fece nulla. Mi rivolle al Milan, ormai ero anzianotto e quell’anno i rinforzi erano tre vecchietti: io, Cudicini e Malatrasi. Ma lì vinsi il primo scudetto della carriera, e anche la Coppa dei Campioni battendo l’Ajax di Cruijff. Finii in serie A a Napoli. Un bel Napoli: c’erano Zoff, Bianchi, Altafini, Sivori, Juliano, finimmo terzi. Ricordo una sera in un ristorante di Mergellina a festeggiare. Io i frutti di mare solo cotti, disse Bianchi, seduto vicino a me. Io invece ostriche. Crude, naturalmente. Così beccai epatite virale e tifo in una volta sola».
Che allenatori ricorda volentieri?
«Per Kaufeldt, detto Napoleone, sei volte capocannoniere in Svezia, medaglia di bronzo alle Olimpiadi del ‘24 a Parigi. Fu il primo a scommettere su di me. In Italia, Hidegkuti e Chiappella, e ovviamente Rocco».
In che rapporti eravate?
«Di rispetto. Anche a me dava del mona, ma con affetto. E poi s’appoggiava agli anziani, ai più esperti: ragazzi, io sono in una buca a bordo campo, non vedo granché, se c’è da aggiustare le marcature pensateci voi, tanto alla fine coi giornalisti la responsabilità me la prendo io. Così, per esempio, se Schnellinger pativa l’ala veloce, a sinistra andava Anquilletti, e Karl si spostava a destra».
Sfoglia il libro e dice: «Non avevo un gran tiro, potevo calciare i rigori ma non le punizioni da fuori area, non ero alto. Ma vede questa foto?» Sì, è una partita di hockey su ghiaccio, e allora? «Allora questo qui a destra sono io, con la maglia della Nazionale. Due partite sole, col Canada, ma una l’abbiamo vinta 5-3, l’anno prima di partire per l’Italia. Il nostro campionato si fermava a ottobre e molti calciatori durante l’inverno giocavano a hockey».
È utile?
«Una volta non c’era tanta possibilità di fare sport al coperto, ci si teneva allenati così. Penso di essere stato un calciatore minuto ma non fragile, ho giocato fino a 39 anni e mi sarebbe piaciuto continuare tra i dilettanti, che so, a Pistoia o a Lucca, ma come straniero non ero tesserabile».
Ricordo un suo curioso modo di dribblare, usava il terzino come una sponda e lo saltava.
«Cercavo il tunnel, se mi riusciva bene, altrimenti mi liberavo con la carambola se il difensore teneva le gambe chiuse. Mio padre mi portava alle sue partite caricandomi in bici, pedalava 20 km e anche più e una volta al campo mi metteva dietro una porta. E avevo tre anni. Penso di avere imparato molto. Avevo il mito di Stanley Matthews perché era ala destra, ma Nacka Skoglund, pace all’anima sua, come ala sinistra era un talento vero».
C’è stata una grandissima Svezia, nel calcio. Quella che va a pareggiare 2-2 a Budapest con la grande Ungheria, che aveva umiliato gli inglesi a Wembley (3-6) e li avrebbe sconfitti anche più duramente (7-1) a Budapest. «Quel giorno segnai di testa », dice Hamrin. E Marianne: «Eravamo fidanzati, guardavo la tv col mio gattino in braccia, vedo Kurt segnare e salto in aria, il gatto s’è attaccato al lampadario».
Com’era il vostro calcio, Hamrin?
«Andavamo a 50 all’ora, adesso vanno a 100. Il nostro calcio era più bello e tecnico, questo è più veloce. Noi eravamo più leali, oggi vedo falli terrificanti».
S’è rivisto in qualcuno?
«Più di tutti in Paolo Rossi. All’inizio in Pato, ma si è perso». Fino a pochi anni fa insegnava calcio ai bambini della Settignanese.
Gli piaceva, ha smesso. «Pallone fa rima con educazione era il mio motto. E i bambini sono bravi. Ma i genitori insopportabili. Non ho rimpianti, comunque, il calcio continua a piacermi e la Fiorentina, alla pari con l’Aik, è la mia squadra del cuore. Un brindisi?». Perché no. Salta fuori una bottiglia di Chianti Hamrin, prodotto a Barberino Val d’Elsa, un 7 in bella evidenza sull’etichetta. «Un bicchiere non fa male», dice ridendo con gli occhi, «e due nemmeno».