Alessandro Ferrucci e Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 27/1/2014, 27 gennaio 2014
“DA TRENT’ANNI I MOSTRI SONO I MIEI PROTAGONISTI”
Dieci anni fa, d’estate: “Ero a Fregene e il mio vicino, un simpatico macellaio, parlava al telefono a voce altissima al centro del giardino. Ai piedi aveva una bacinella. Muoveva freneticamente i piedi e avvicinava la cornetta all’acqua: Signò, che je devo dì? È ‘na vacanza da signori. Qui in Sardegna sembra d’esse in paradiso. Il nostro è un buffo paese in cui tutti fingono senza pudore e sentendosi stretti nei propri panni, sognano o millantano di essere diversi da ciò che sono. Ma l’Italia di Vacanze di Natale, quella che racconto da 30 anni, non è cambiata e non conosce evoluzione. Quei modelli sono stati studiati e replicati, un po’ come accadde a Sordi che prima osservò i suoi connazionali e poi si accorse che gli italiani avevano iniziato a copiarlo e un’intera generazione parlava e si muoveva esattamente come lui”. A un soffio dai 65 anni (i capelli bianchi e lunghi, la dialettica rapida, il sorriso largo) Enrico Vanzina nutre la stessa curiosità che da ragazzo lo vedeva sostare dietro la porta del pomeriggio ad ascoltare cinema con la speranza che la sera non scendesse a infrangere l’incanto. In cima ai Parioli, l’appartamento in cui suo padre Steno divideva il tempo con Sordi, Longanesi, Pirro e Flaiano: “Ennio andava pazzo per il dettaglio, un giorno entrò e senza togliersi il cappotto ci informò: ‘Nelle scuole è in atto una rivoluzione, le ragazze si chiamano tutte Samantha’” è diventato l’ufficio in cui lui e suo fratello Carlo (non di rado, per abitudine e senso di equità, Enrico parla al plurale) hanno scritto ispirandosi al presente più di 100 film: “Senza mai sventolare tesi preconcette o moralismi”. Così hanno reso universali dei modelli, definito dei tic, divulgato prassi. Secondo Mimmo Calopresti hanno anche inventato il “milanese moderno”. Mostri con il sorriso sulle labbra. L’ultimo, Sapore di te, è stato immaginato all’alba. L’ora in cui Enrico, quando tutto tace, si mette a tavolino: “Mai più tardi delle sette e mezza” e sorretto da qualche certezza, immagina: “La situazione generale si è imbarbarita moltissimo, i mostri degli anni Ottanta rispetto ai contemporanei impallidiscono e i nuovi ‘ultramostri’ sono mutanti che fatichiamo a raccontare, ma nonostante tutto, la patria di Totò esiste ancora e la setta degli spiritosi non si estingue. Se mio padre fosse qui riderebbe. L’altro giorno camminando per Roma vedo un cartello su un negozio. Sopra c’è scritto: ‘Torno tra un po’ e sotto, in piccolo: ‘Si me và’”.
Mai avuta voglia di sparire?
Neanche al principio, quando per Figlio delle stelle, ci fecero sapere che a Cagliari avevamo battuto un record. Il giorno della prima, allo spettacolo delle 20, non si era presentato nessuno. Mai successo.
Come cambiaste rotta?
Lizzani diceva: “Bisogna parlare solo di ciò che si conosce” e aveva ragione. Febbre da cavallo funzionò perché dell’ippodromo, a cominciare da un nugolo di figli di mignotta, conoscevo ogni anfratto. Li frequentavo da quando avevo quattordici anni. Decidemmo di scrivere storie sulle nostre passioni. Dopo I fichissimi, 300 milioni di spesa e 9 miliardi di incasso, il calcio con Eccezziunale veramente, Sapore di mare e un film sul nascente edonismo, Vacanze di Natale nonostante il dogma dei cinematografari: mai parlare di neve o pallone.
Dogma fallace.
Ambientare a Cortina un film su chi la occupava dopo aver fatto i soldi ci sembrò un pretesto interessante. Non c’era alcuna critica sociale, ma solo il racconto diretto di quel che vedevamo. Spaccati di pura commedia all’italiana.
Avete raccontato eccessi e nequizie di una borghesia in movimento. C’è chi non ha capito e accusandovi di eccessiva indulgenza con l’oggetto della vostra indagine.
Avere rispetto per i personaggi non significa aderire ai loro orrori, ma l’odio verso il mondo che raccontavamo era irriducibile. Così violento da alterare il giudizio, anche su di noi. La critica ci ha sovrapposto alle vicende descritte, rendendoci di volta in volta simili e vicini ai decerebrati di Via Montenapoleone, agli Yuppies che imitavano Agnelli o ai figli di papà di South Kensington.
Perché secondo lei?
Fu un’inconcepibile crociata ideologica. Chi scriveva di gangster era forse il fratello di AL Capone? Le nostre in realtà erano satire ferocissime. Ma per la stampa, stavamo con la Milano da bere a prescindere. Io non sono risentito con nessuno, ma le ingiustizie mi irritano. Il pregiudizio mi ha cambiato. Quando ti additano , per proteggerti, diventi cinico. Un po’ di revisionismo storico l’abbiamo meritato.
Altri vi hanno riconosciuto lungimiranza. Affaristi, bancarottieri, arrivisti, puttanieri, mazzettari, finte bionde.
Con Le finte bionde, una svolta, ci accorgemmo che i nostri borghesi erano talmente agghiaccianti da rendere difficile la loro trasposizione in commedia. Si creò una rimozione involontaria perché come sempre, i protagonisti delle avventure narrate, preferivano non identificarsi. Sapete quante decine di persone che conosco ho messo nei miei film? Non c’è uno che si sia riconosciuto.
Quasi come in Fratelli d’Italia di Arbasino: “Ci sono tutti, ma io non sono così”.
Villaggio teorizzava che il successo della sua maschera fosse proprio la mancata identificazione del pubblico. Fantozzi, per lo spettatore, era sempre l’altro.
Ora per raccontare i vizi nazionali vi spostate nel passato e nel futuro.
La chiave fantastica è stata una necessità. Il realismo non funzionava più. E la commedia ferocissima dei Risi e dei Monicelli si era avvalsa di attori enormi che già negli anni Ottanta, traviati dai produttori, erano diventati registi di se stessi.
Con quali risultati?
Un cinema egocentrico e irrisolto che ci impedì di usufruire del talento dei migliori. Nel tempo, forse, è sfumata la pretesa di raccontare il paese. Siamo in attesa che il paese racconti qualcosa a noi. Ma è difficile. Si comunica poco. Nessuno si guarda in faccia. Siamo impantanati. Anche nel linguaggio. Quando leggo Italicum penso a Italicus. A tragedie, cupezze e sfighe atroci.
I vostri mascalzoni si divertivano.
Anche nella vita. Erano folli e spensierati. Il De Sica che incontra un gatto nero, scende dalla macchina e fa guidare il filippino, l’avevamo visto in Via Margutta con Cecchi Gori .
E i vostri cumenda milanesi?
Se andate al Nord li ritrovate identici. Guido Nicheli era arrivato al cinema per caso. Affrontava va viaggi pazzeschi armato solo di uno zaino. Poi tornava e con aria da profeta liberava la sua verità: “Ragazzi, c’è una nuova parola d’ordine: Porto Seguro”.
Fenomeni odierni?
Zalone. Scorretto, anticonformista, semplice, fuori dagli schemi. Mi piace molto perché non sapresti dire come la pensa, chi voti.
Farebbe un film sulla politica?
Quando per De Sica scrivemmo Simpatici e antipatici, un periplo dei circoli romani con un gigantesco Funari che ai soci promette di riempire la piscina con l’Evian, i politici si infuriarono, uno in particolare mi chiamò e richiamò. Con l’idea di raccontare le seconde file poi scrissi Peones. C’erano parolai di sinistra superdotati e ambìti dalle dame radical dei salotti e leghisti che sedotti dalle popolane, precipitano nelle grinfie di famiglie che li trascinano alla festa Dè Noantri. Un ritratto che non si è fatto perché la cronaca ti frega sempre. Rimani indietro. Abbiamo visto Berlusconi, Marrazzo, Fiorito. Chi l’avrebbe detto?
Un desiderio?
Mi piacerebbe fare un ritratto corale dell’Italia. Un film senza soggetto che racconti il Paese nell’arco di una giornata. Un Nashville ci servirebbe, anche per superare la categoria di Berlusconi. La sua figura ha cristallizzato tutte le altre.
Ora c’è Renzi.
È diverso dal Berlusconi che prendendosi la scena disse tre cose semplici e vincenti: mi piace la fica, sono laico e mi piace guadagnare. Renzi è democristiano. Quando Berlusconi ha provato a diventarlo, ha rischiato di essere divorato.
E noi, da cosa siamo divorati?
Dal non senso. Salgo in taxi. Il guidatore mi riconosce: “Senta un po’, ma lei lo usa il tablet? C’è mia figlia che chatta tutto il giorno con uno di Grottaferrata, ma non lo incontra mai. Quando ne ho parlato con mia moglie, mi ha rimproverato: “Sei antico. I ragazzi oggi si danno appuntamento in rete”. Poi ha inchiodato: “Dottò, ma se rende conto? Io abito a Cinecittà, a due metri da Grottaferrata, ma ‘sti dù scemi non potevano darsi appuntamento a metà strada?”.