Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce, Il Fatto Quotidiano 27/1/2014, 27 gennaio 2014
DACCI OGGI IL NOSTRO FURBO QUOTIDIANO
Il volto, l’espressione, la cura del corpo, la postura. Tutto torna, dopo. Dopo aver scoperto chi sono, chi sono realmente, come si muovono, agiscono, si infiltrano tra le linee della società, la alterano a loro piacimento. Sono i “nuovi Mostri”, un’eco legata alla pellicola di Risi, la sostanza vicina alla furbizia innalzata – per alcuni – a qualità. Ribaltano i piani. Non chiedono scusa, per carità, c’è sempre un altro “perché” un “non è come appare”, è un “complotto”, la “verità verrà fuori”. Varie realtà, Chiesa, politica, affari, società, con una triplice “S” – spesso – a tenerli uniti: sangue, sesso, soldi.
Soldi, tanti. Quelli intascati da monsignor Nunzio Scarano da Salerno, nome per i posteri “Don 500 euro”. Milioni, affari, bella vita, frequentazioni imbarazzanti e una passione sfrenata per gli immobili. Un palazzetto cielo-terra nella città natia, box auto, altri appartamenti, socio in tre società aperte con parenti e amici e dedite al mattone. La sua passione. Un sacerdote in grado di mediare con broker e 007 infedeli per riportare illegalmente in Italia 20 milioni di euro, di riciclarne altri per estinguere il mutuo sulla sua principesca casa al centro di Salerno. La Gdf ha accertato “finte donazioni” per case di cura e per anziani del valore di circa 6 milioni di euro, provenienti da società offshore e transitati sui suoi conti presso l’agenzia Unicredit di Via della Conciliazione a Roma e presso la banca vaticana dello Ior. A Salerno lo conoscono tutti, o meglio “conoscevano”. Prima era un continuo chiedere, intercedere, millantare, ottenere, quindi una cena, un’altra cena, una festa, un incrocio di favori. Adesso sembra un figlio di madre ignota, un rinnegato, guai a pronunciare il nome Scarano, quando tutti sapevano, tutti giudicavano. Ma nessuno ha mai denunciato. Il suo ultimo immobile è la cella di Regina Coeli. Sede elegante, chicchissima, brochure patinata e contratti che promettevano l’impossibile, ma raggiungibile, a portata di firma. Così Gianfranco Lande, detto il Madoff dei Parioli, è riuscito a convincere i clienti a fidarsi di lui e a cadere in un’incredibile rete di società piazzate nei paradisi fiscali di mezzo mondo. Prometteva rendimenti fino al 20 per cento (dove il mercato raramente sfiora il 4), sorrideva con fiducia, stringeva mani, tranquillizzava, un bicchiere di champagne perché no, attirava i risparmi di una clientela tanto varia quanto selezionata. Medici, attori, artisti, galleristi, industriali, starlette, calciatori, politici, principesse e ben novanta pregiudicati. Non pregiudicati qualunque, anche vicini ai Piromalli, ‘ndranghedisti con i galloni. La cifra totale? Oltre 300 milioni di euro per oltre 1600 clienti dei quartieri bene, Roma nord, sua mamma, la nobildonna Edvige Delfino, chiacchierava e beveva soft drink al caffè Ginori d’estate e al bar Euclide d’inverno, con le madri di quelli che, quarant’anni dopo, lui ha raggirato. Ora in udienza si presenta con la barba lunga, sempre più grigia. Pochi capelli, ma spettinati, lo sguardo fisso, aspetta di scontare i sette anni di galera. Poi chissà.
La figlia del re di calce e struzzo
Altra stoffa. Altra storia. Altro percorso giudiziario. Ma una passione e una fortuna sfacciata nel mattone per Angiola Armellini, figlia di Renato il re del calce e struzzo nella Capitale, a suo tempo finito in numerose inchieste per bancarotta e truffa. Per carità, via le colpe dei padri sui figli, via il dito puntato prima dei tre gradi di giudizio, resta l’accusa di aver nascosto negli ultimi anni al Fisco, attraverso un giro di società, due miliardi e cento milioni di euro. Frutto della rendita di 1.243 immobili sui quali non sono mai state pagate neppure l’Ici e l’Imu, così come risulta dalle accuse del sostituto procuratore Paolo Ielo e dei finanzieri che hanno “proceduto al disconoscimento degli effetti scriminanti di 10 scudi fiscali presentati nel 2009”. E anche per lei non è la prima volta, già nel 1991, assieme al padre e alla sorella Francesca, si parlava di frode fiscale e falso in bilancio per oltre 500 miliardi di lire. Quindi nel 1996 fu coinvolta, assieme all’ex marito Alessandro Mei, in una bancarotta fraudolenta da 200 miliardi di lire. Briciole rispetto all’oggi. Rispetto a una società, quella capitolina, fiera dei sui figli, soprattutto se offrono immobili, se risolvono problemi, se lasciano intravedere il sogno di conquistare due mattoni all’ombra dei Sette colli. Ora si attende la verità processuale per capire quanto vale la passione, per l’immobile.
Altro capitolo. Un giorno forse non lontano, che il novarese trapiantato mal volentieri a Torino spera e crede non sia all’orizzonte, ci ricorderemo di Roberto Cota per le mutande color kiwi, cioè verde Lega, comprate a New York per 40 dollari e inserite fra i rimborsi per la Regione Piemonte. E di mezza Giunta abruzzese, compreso il governatore Gianni Chiodi, che nasconde una certa passione per il lusso sotto oblunghe lenti da geometra del Catasto, ci verranno alla memoria le notti in alberghi a cinque stelle con amanti a rotazione per “missioni istituzionali”. Il politico Luigi De Fanis, assessore alla cultura in Abruzzo, non è un uomo sicuro di sé, ma consapevole di una carica che qualcuno gli ha consentito di ricoprire. E così, infatuato sino al delirio, ha offerto un contratto alla segretaria che includeva quattro prestazioni sessuali ogni trenta giorni, ovvero una alla settimana come consigliano i sessuologi o gli stessi andrologi e De Fanis, medico, ne era magari al corrente. La donna, spaventata, ha spiegato la surreale vicenda ai magistrati e ha mostrato anche il fogliettino sui cui il datore di lavoro, che pare abbia cercato addirittura di avvelenare la moglie, promette 3.000 euro mensili in cambio di “quattro amore con regalo”.
Le regioni sono dei pozzi
Fra le decine di consiglieri regionali, addirittura oltre cinquanta in Sicilia, indagati per truffa o peculato, impressiona la sfacciataggine, lo sberleffo ai poveri, la risatina del “io vi frego e voi non mi beccate”. E lo pensava, altezzoso, l’ex assessore aquilano, settore opere pubbliche, che di nome fa Ermanno Lisi. Eppure aveva guardato il disastro, aveva sentito la ferocia di un terremoto che ha ammazzato 309 concittadini. Il potere, quel piccolo segmento che unisce la farsa e la tragedia, l’aveva reso incurante di qualsiasi miasmo di onestà e correttezza, ma anche di rispetto per i morti, i feriti e gli sfollati. E tranquillo, felice, al telefono con l’architetto Pio Ciccone, Lisi pronunciava testuali parole: “Il terremoto è stato un colpo di culo”. E argomentava: “Ormai l’Aquila si è aperta, tu non te ne stai a rende conto, ma le possibilità saranno miliardarie”. Continua: “Io sto a cercà di prendere ste 160 case, se non lo pigli mo’ non lo pigli più, questo è l’ultimo passaggio di vita, dopo sta botta hai finito, o le pigli mo’...”. Sinistra e destra. L’ex consigliere comunale Luigi Tancredi, indagato nell’inchiesta su tangenti e appalti, era un esponente di destra e ora faceva il dirigente Asl.
L’ex camorrista Carmine Schiavone, affiliato ai famigerati e spietati casalesi, certo non voleva bene a quel pezzo di Campania che calpestava e dominava. Un paio di mesi fa con sedici anni di ritardo, gli abitanti di un triangolo letale fra Caserta e Napoli hanno conosciuto la testimonianza di Schiavone dinanzi a una commissione parlamentare. Adesso che è diventato un personaggio televisivo e la Terra dei Fuochi ha conquistato le cronache nazionali e le mamme coraggiose con i figlioletti gravemente malati o tragicamente morti sono andate al Quirinale, Schiavone racconta come se fosse uno sceneggiato il traffico di rifiuti tossici: la monnezza ficcata negli appezzamenti che producevano verdure o che ospitavano le mandrie al pascolo. E come se fosse il lugubre corvo di Edgar Allan Poe, ormai pentito, prevede con spietata lucidità storica perché protagonista di eventi malavitosi: “Chi vive in paesi come Casapesenna, Castel Volturno o Casal di Principe non si salverà. Avranno al massimo vent’anni di vita”.
L’ultimo mandato di arresto per Emilio Riva, 87 anni, capostipite dell’omonimo gruppo, è stato spiccato e comunicato la scorsa settimana, riguarda la truffa. Riva è troppo anziano per andare in galera, e ha trascorso già un anno ai domiciliari. Riva significa Ilva, l’acciaieria di Taranto con oltre 12.000 dipendenti. Riva acquistò i cinque altiforni nel 1995 dalla defunta Iri, cioè dallo Stato italiano. Spese spiccioli, prese un impero. Doveva, soltanto, sistemare l’area, bonificare, evitare incidenti e malattie. Non l’ha fatto. E quando gliel’hanno chiesto con insistenza ha minacciato il fallimento. Che vuol dire tenere sospesa una città fra la carestia immediata e la morte prossima. La magistratura ha scoperto che gran parte di quei soldi che il Gruppo Riva ha fatturato, dimenticando di salvaguardare la salute di operai e cittadini, la famiglia li ha trasferiti all’estero. Per sottrarli al fisco, all’Ilva e al senso di umanità che non appartiene ai nuovi mostri. A quella categoria che con la furbizia e l’illegalità ha distrutto l’Italia e, soprattutto, la fiducia in se stessa.