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 2014  gennaio 27 Lunedì calendario

INDIA, CINA, RUSSIA, TURCHIA, BRASILE LE 5 TIGRI FRAGILI CHE NON RUGGISCONO PIÙ


Che fosse il crollo delle tigri asiatiche del ’97, le dotcom nei primi anni duemila o i mutui subprime a fine decennio, le élite di Davos hanno sempre discusso brillantemente le crisi in corso che non avevano visto arrivare l’anno prima. Il 2013 e il 2014 hanno rispettato la tradizione. Un anno o due fa per esempio Davos non faceva che parlare della transizione del potere finanziario dall’Occidente in declino verso le nuove potenze emergenti, ma ora la moda è passata e ha lasciato il campo a profonde analisi sui motivi che rendono Cina, India, Brasile, Sudafrica, Russia o Turchia paesi fragili. Fino all’anno scorso, in realtà, glorificarli non era solo un vezzo davosiano da miliardari con tempo libero e un aereo privato ad attenderli all’aeroporto di Zurigo. I dirigenti delle principali economie emergenti, sempre divisi dai rispettivi nazionalismi, erano uniti almeno dalla convinzione che questo secolo sarebbe appartenuto a loro. A Davos ovviamente se ne parlò con toni trionfalistici. Due anni dopo, durante il World Economic Forum del 2014, il mondo sembrava già rovesciato. Non c’è solo la tempesta finanziaria che torna a colpire l’Argentina, un Paese che da dieci anni cerca di sospendere unilateralmente le leggi dell’economia al punto da falsificare con metodo i dati dell’inflazione e della crescita. Il rand sudafricano e la lira turca sono crollati dell’1,5% in un giorno solo, il 23 gennaio. Il rublo è ai minimi da cinque anni. Il real brasiliano
scivola anche dopo che la banca centrale ha alzato i tassi al 10,5%. La rupia e la Borsa indiana cercano di riemergere in modo precario dalla crisi di fiducia che le ha colpite durante l’estate ai primi segnali che la Federal Reserve avrebbe iniziato a ridurre le iniezioni di liquidità. Quanto alla Cina, la sua valuta resta fra le poche nel mondo emergente a conservare il favore degli investitori e dei grandi attori del commercio internazionale. Nel 2013 lo yuan è diventato l’ottavo mezzo di pagamento più usato al mondo, con un salto di ventidue posizioni. Ma un’occhiata più da vicino ai dati forniti da Swift, il sistema globale dei pagamenti, dimostra che i rapporti di forza sono molto meno equilibrati di quanto sembra. Il dollaro resta il primo mezzo di pagamento al mondo con il 39,5% delle transazioni. L’euro è il secondo con il 33,2%. La quota dello yuan, o renmimbi (“moneta del popolo”) cinese è ancora all’1,1%. La vulnerabilità valutaria degli emergenti, o la loro relativa irrilevanza, è però solo l’aspetto più manifesto di una realtà che i mercati hanno scelto di ignorare quando tutti speravano che i Brics avrebbero trascinato l’Occidente fuori dalla recessione. L’ultimo anno ha segnato un brusco risveglio, in particolare proprio riguardo al presunto leader del club. Di colpo la Cina è apparsa al mondo meno efficiente, più indebitata, meno stabile e peggio governata di quanto per dieci anni quasi tutti avessero sostenuto. L’episodio più recente è emblematico della nube di sospetto che è ormai scesa sulla Repubblica popolare e sulla capacità di leadership dei suoi dirigenti. La banca cinese Icbc, la più grande al mondo per dimensione del bilancio, ha fatto sapere che non garantirà il fondo fiduciario da mezzo miliardo di dollari da lei stessa creato e oggi prossimo al default. Il fondo, collocato presso gli investitori, è servito a finanziare un progetto di produzione di energia da carbone. Strutture fiduciarie del genere in Cina valgono nel complesso circa 1.200 miliardi di dollari e nell’ultimo decennio hanno finanziato il boom di investimenti in infrastrutture che ha alimentato la crescita a doppia cifra: aeroporti e autostrade destinati a restare semideserti, siderurgia ad alto impatto ambientale, foreste di grattacieli vuoti, cementifici. I dirigenti locali del partito per anni sono stati valutati e promossi sulla base del tasso di crescita dei loro distretti, dunque non hanno esitato a incoraggiare un boom di investimenti in infrastrutture pur di raggiungere gli obiettivi. Il risultato oggi è che molti di questi progetti non rendono e valgono appena una frazione del costo al quale sono stati costruiti a debito. Nei mercati si è diffuso il sospetto che il default imminente del fondi di Icbc sia ciò che fu per Bnp Paribas l’improvvisa chiusura di due hedge fund interni a inizio agosto del 2007: il primo sintomo di una crisi di debito, come allora accadde per i mutui subprime. Il governo di Pechino, se vuole, ha la forza per tenere la situazione sotto controllo. Le riserve valutarie della banca centrale valgono circa 3.200 miliardi di dollari e possono essere usate per proteggere il sistema finanziario. Ma né per la Cina né per gli altri Brics o per l’aristocrazia delle potenze emergenti esiste qualcosa come un pasto gratis. Come in America con i subprime, come in Europa per il debito pubblico dell’Italia o della Grecia e quello bancaria della Spagna o dell’Irlanda, ogni obbligazione finanziaria prima o poi arriva a scadenza. Ed è a quel punto che viene giudicata sulla base della redditività dell’investimento che ha permesso. In Turchia, un mercato che per l’Italia vale 10 miliardi di export, anni di dubbi progetti edilizi incoraggiati dal governo islamico moderato per alimentare la corruzione stanno presentando il conto. Lo fanno sul piano politico, con la Mani Pulite di Ankara ormai aperta. E succede anche sul piano finanziario, con un crollo della lira turca sull’euro del 25% nel 2013 e del 10% solo nell’ultimo mese. Il saldo degli scambi con l’estero, da anni in profondo rosso a circa il 10% del Pil, non poteva mentire: l’accumulo di debito estero non continua mai all’infinito e l’inversione di tendenza è spesso molto brusca. Anche in India la corruzione, il controllo della politica da parte di pochi conglomerati industriali, la lentezza della burocrazia e del sistema decisionale stanno avvicinando i nodi al pettine. Nel 2013 il numero di investimenti esteri è crollato del 46% rispetto all’anno prima. Il subcontinente fatica a tenere un ritmo di crescita del 5%, sotto il quale è destinato a fabbricare milioni di giovani disoccupati ogni anno. Il governo ha chiamato alla guida della banca centrale un economista star dell’Ivy League Usa come Raghuram Rajan, ma la sua spinta modernizzatrice è accolta con fastidio dalla vecchia guardia del partito del Congresso. Quanto al Brasile, i progetti per i Mondiali di calcio di quest’anno e per le Olimpiadi del 2016 non bastano a mascherare la sproporzione fra le ambizioni globali e lo stato pre-moderno di molte delle infrastrutture. Ciò spinge in alto i costi dell’export e erode la competitività: il real ha perso un quarto del suo valore in un anno, l’inflazione sfiora il 6% e la Borsa è in calo costante dal 2010. In Russia poi un solo dato riassume la sfiducia con cui gli investitori globali guardano al futuro di un’economia sempre più dipendente dalle materie prime: Gazprom, il monopolista del gas e del petrolio, è forse la grande società quotata oggi ai prezzi più stracciati del mondo. In Borsa vale appena tre volte gli utili di un anno, la metà delle concorrenti europee, malgrado le colossali riserve di idrocarburi e un dividendo del 6%. Pochi vogliono comprare le sue azioni, perché vedono in Gazprom uno strumento di potere nelle mani del presidente Vladimir Putin e non un’impresa gestita con logiche commerciali. Nessuno degli emergenti smetterà di crescere per questo. Alcuni si avvicineranno a livelli di vita da paesi a reddito medio, anche se lo faranno a ritmi più lenti. Ma è come se la ripresa americana e il timore che la Fed smetta di inondare di liquidità il mondo avessero fischiato la fine della ricreazione. Per i Brics è finita l’età eroica. Da ora in poi non potranno più guadagnarsi un solo dollaro d’investimento sulla fiducia che i futuri padroni del mondo sono loro.