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 2014  gennaio 27 Lunedì calendario

IL LUNGO INVERNO DELLE BANCHE ITALIANE ALLA RICERCA DI 10 MILIARDI DI CAPITALE


Al di qua delle metafore il 2014 è un anno di verità per il settore bancario europeo. Si parte dalla Babele contabile e gestionale di centinaia di istituti in 27 paesi, si passa per doppio scrutinio ai bilanci per renderli più solidi, concorrenziali e aderenti alla vigilanza unica. Le banche d’Europa ne usciranno diverse. Qualcuna, come non ha avuto paura di dire Mario Draghi, non ne uscirà proprio. «Le banche deboli devono uscire dal mercato - ha detto alla Neue Zürcher Zeitung - non fanno prestiti e creano tensioni». Il riferimento è alle banche zombie che succhiano risorse agli istituti centrali e non le ritrasmettono a famiglie e imprese. E che, forse ispirati dalle prove di forza della finanza anglosassone, i regolatori di Bruxelles e Francoforte si sono decisi a togliere di mezzo. Nel riallineamento in cantiere tra politica monetaria, trasparenza e omogeneità gestionali degli attori, supervisione, l’Italia è una parte del problema, come da mesi mostrano l’evoluzione del credito e i dossier aperti. Pochi giorni prima di Draghi, il presidente di Mps Alessandro Profumo aveva toccato un altro tabù: «Se salta l’aumento non rischia solo il Monte, ma l’intero sistema. Un’eventualità del genere avrebbe un impatto fortissimo, in Italia e all’estero. Sarebbe un segnale pessimo, non possiamo permetterci di fallire». Le parole dell’ex Unicredit, da anni tra i meno flautati nel plotone delle grisaglie, hanno fatto discutere.
Anche perché, per paradosso tecnico, Mps è tra le banche più sicure del sistema avendo 4,07 miliardi di euro di bond del Tesoro da convertire in azioni se l’aumento da 3 miliardi non riuscirà. Ma dietro le parole di Draghi e Profumo non si può nascondere una realtà bancaria che il legislatore ha deciso di far correre. Da marzo l’Asset quality review della Bce, in tandem con le vigilanze nazionali, allineerà 128 istituti ai principi di Basilea 3 e a una migliore e più robusta situazione patrimoniale. Per tutti sono attese più rettifiche/ accantonamenti sui crediti, e (quindi) più patrimonio, da trovare tramite cessioni e gestione degli attivi, e se non bastasse chiedendo fondi agli azionisti. La magnitudo dipenderà dai criteri guida finali, ma si annovera nelle decine di miliardi di euro. Standard & Poor’s stima per le banche italiane tra 32 e 42 miliardi di «maggiori accantonamenti per perdite su crediti tra metà 2013 e fine 2014», e che «un numero limitato di banche non riuscirà a coprirli con gli utili, e dovrà ricapitalizzare ». Tra chi ha già detto che emetterà nuove azioni ci sono Mps per 3 miliardi, Banco popolare per 1,5 miliardi appena deliberati dal cda di venerdì, Bpm per 500 milioni, Carige sui 700 milioni. Altri nomi seguiranno, e per diversi operatori e advisor andrebbero cercati in Banca delle Marche, Veneto Banca, oltre alle popolari di Vicenza, Etruria, Spoleto. Si stima che questi istituti richiederanno fondi al mercato per un’altra manciata di miliardi, o in alternativa tenteranno una serie di fusioni riparatrici che coinvolgerà le Bcc, dotate di minori possibilità di ricapitalizzare od ottimizzare il patrimonio per via gestionale. Nel complesso, si può fin qui realisticamente calcolare che gli aumenti di capitale non saranno inferiori a una decina di miliardi. Lo scenario è monitorato dalla Banca d’Italia, che avrà un ruolo di supporto nel condurre i 15 maggiori istituti verso la vigilanza dell’Eurotower, e fortificare gli altri 600 con attivo non sopra i 30 miliardi (che resterà controllato in loco). Numeri ed effetti dipenderanno anche dalla tenuta della situazione macroeconomica italiana, come attestano due studi di Morgan Stanley e Barclays, in cui si notano cauti segni di recupero legati alla dinamica degli spread e congiunturale: ma proprio l’eccessiva lentezza della ripresa potrebbe esporre le banche italiane a incidenti sul percorso dei test di vigilanza. Le conseguenze, poi, varieranno secondo l’appartenenza degli istituti nazionali a tre categorie. In cima ci sono le due società nate sulle fondamenta delle ex Bin, che giocano la loro “Champions League”. Unicredit e Intesa Sanpaolo hanno patrimoni primari oltre l’11%, tra i maggiori in Europa, che non saranno compromessi dall’erogazione di cedole o dalle pulizie di bilancio in corso. Entrambe hanno accesso ai mercati dei bond, come fatto a gennaio approfittando dei tassi in calo, e più lo faranno per l’esigenza di restituire parte dei finanziamenti Ltro a Francoforte. I loro due ad Carlo Messina e Federico Ghizzoni a Davos hanno dichiarato di puntare a una redditività crescente, misurata da un Roe superiore al 10% (mentre l’Abi stima per la media delle banche italiane un ritorno sul capitale dello 0,1% nel 2013, dell’1,2% quest’anno e dell’1,7% il prossimo). Per consolidare il primato servirà accrescere la redditività e ottimizzare i costi: allo scopo Messina sta ultimando il piano industriale (che in Ca’ de Sass latita dai tempi di Passera), e Ghizzoni pensa di aggiornare quello del novembre 2012. Entrambe infine si applicano nel cedere crediti e altri attivi non fruttiferi, o comunque rimpiazzabili con impieghi più efficienti per costo/rendimento del capitale. Pare, questa, una continuazione sofisticata del deleveragingche ha investito il credito mondiale dal 2008. Ed è agevolata dall’apprezzamento dei valori mobiliari, dagli accenni di ripresa macro e dalle aumentate coperture sulle sofferenze (previa moral suasiondi vigilanza, come già sul 2013), così da ridurre lo scarto tra valori contabili e di realizzo dei crediti problematici. Anche la maggiore disponibilità dei regolatori - il ministro del Tesoro da mesi auspica che cartolarizzazioni e prestiti non bancari compensino la “sobrietà” degli istituti - permette di sedersi al tavolo con i compratori, che non mancano. L’ultimo caso è la cessione di Unicredit al fondo hedgeMariner di un portafoglio in bonis da 910 milioni di project financing; a fine dicembre sempre Unicredit aveva venduto a Cerberus 900 milioni (nominali) di Npl. Anche Mps e alcune Bcc avevano già chiuso negoziati del genere. «Inizia a emergere un fenomeno interessante: il trasferimento sintetico delle tranche più rischiose di portafogli crediti», spiega Michele Crisostomo, partner dello studio legale Rcc. «È una modalità organica di generare capitale, trasferendo allo shadow bankingrischi tipici del mestiere creditizio. Il mercato per questi rischi sembra esserci, ancorché limitato ai grandi operatori con modelli interni di ponderazione degli attivi». Il contraltare di simili operazioni è che si rifanno al modello originate to distribute, reso celebre dai mutui subprime Usa, e che si presta alla circolarità viziosa tra le banche che generano gli attivi in questione e chi li compra, impacchetta e rivende. Sotto le due grandi banche c’è la Serie A. Mps è la prima forza, e la sua esigenza di ricapitalizzare cambiando l’azionariato a maggio fornirà un test di sforzo al sistema. Il consorzio di garanzia, una dozzina di banche guidate da Ubs, è ampio e va rimettendosi in moto: e dopo i fulmini assembleari di un mese fa si diffonde nuova fiducia sulla fattibilità della complessa operazione. L’aumento in preparazione in Carige ha aspetti comuni a quello senese, perché la fondazione omonima non ha i mezzi per difendere il proprio 46% ed è destinata a più che dimezzarsi. Vengono poi le banche mutualistiche come Bpm, che dall’epoca democristiana avevano arruolato una potente lobby parlamentare. E la mantengono, come mostra la lettera bipartisan al governatore Visco per contestare gli aspetti della direttiva comunitaria Crd IV in cui salgono a 5 le deleghe di voto e s’introduce il voto a distanza nelle assemblee delle coop. Il fatto che alcune popolari possano dover chiedere fondi agli azionisti rende ancor più centrali le riforme della governance cooperativa da tempo evocate invano a Via Nazionale e tra gli investitori. In fondo all’agone bancario domestico - nella Lega Pro si potrebbe dire - stanno le 400 Bcc e gli istituti minori. Un mondo a sé che mentre gli altri istituti tagliavano costi e impieghi (causa crisi) li ha aumentati: +9% le spese del personale l’ultimo quadriennio, +5% quelle di gestione. E impieghi cresciuti del 13% annuo tra 2000 e 2010, rubando quote di mercato ai big che prestavano a velocità dimezzata. La crisi qui ha infierito, fatto emergere «le debolezze del modello Bcc: rigidità dei costi, dipendenza dei ricavi dall’intermediazione tradizionale, concentrazione dei prestiti», come spiegò nel giugno 2013 il vice dg della Banca d’Italia, Fabio Panetta. Quasi tutti gli istituti commissariati dalla vigilanza (una dozzina) sono Bcc. E in molti casi la concentrazione o scomparsa delle insegne, per ottenere sinergie e scala su sportelli e spese ormai fuori contesto, appare inevitabile.