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 2014  gennaio 26 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA QUESTIONE DELLE PREFERENZE


ROMA - La tenuta del governo Letta a fronte delle fibirillazioni legate alla riforma elettorale continua a tenere banco nel dibattito politico, anche se Matteo Renzi si ribadisce ottimista: "I conservatori non mollano, resistono, sperano nella palude. Ma l’Italia cambierà, dalla legge elettorale al lavoro. Questa è la volta buona", scrive su twitter il leader democratico che ha fatto riunire oggi pomeriggio alla Camera i deputati che fanno parte della commissione Affari costituzionali, mentre sempre a Montecitorio sono al lavoro anche gli esponenti di Forza Italia che seguono la ’pratica’ legge elettorale, a partire dal capogruppo Renato Brunetta e da Denis Verdini. E’ la risposta all’ennesimo affondo di Alfano sulle preferenze. Ma nel pomeriggio un nuovo caso è destinato a far crescere ancora la tensione.
Lo accende Renato Brunetta. "Se si fa la legge elettorale si va a votare. Quando si carica una pistola, probabilmente spara", provoca il capogruppo di Forza Italia alla Camera, ospite di "In mezz’ora", su Raitre. Passa qualche ora e la risposta è durissima e ufficiale: "Forse Berlusconi non ha avuto il tempo di informare Brunetta che l’accordo prevede legge elettorale, superamento del Senato e riforma del titolo V. Il capogruppo plachi i suoi bollenti spiriti: nessuna corsa al voto, prima vengono le modifiche costituzionali di cui il Paese ha urgente bisogno e su cui siamo impegnati". Firmato Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria Pd.
Ma l’ennesima giornata di tensione era stata aperta al mattino dal vicepremier Angelino Alfano. Il presidente del Consiglio, ha spiegato, "è espressione del Pd, e se il Pd sostiene Letta il governo va avanti, in caso contrario no. Si riuniscano e decidano cosa fare, il paese non può pagare le liti interne al Pd. Per anni quando il presidente del Consiglio era espressione del Pd la vita del governo è stata condizionata negativamente dalle dinamiche interne al partito, ma il paese non può sobbarcarsi l’onere e il peso dei litigi interni a quel partito".
Nel mirino di Alfano anche Forza Italia e la sua netta opposizione alla reintroduzione delle preferenze nella legge elettorale. "Per noi - afferma il leader del Ncd - l’obiettivo è che l’elettore possa scegliere il deputato, e proprio perché stiamo superando il Porcellum, mi chiedo perché fare torto agli italiani e tenersi la parte peggiore di quella legge elettorale. Non capisco proprio, è inspiegabile, per Forza Italia è diventata una materia teologica, ed è impossibile discuterne. Chiedo a Forza Italia di non fare questo torto agli italiani".
Frasi, quelle sul Pd, alle quali ha voluto replicare prontamente Deborah Serracchiani, presidente della Regione Friuli Venezia Giulia e membro della segreteria democratica, intervistata da Maria Latella su SkyTg24. "Il Pd - dice - da quando è stato eletto Matteo Renzi ha fatto la sua parte e ha presentato le sue proposte di riforma", ciò dimostra che "non vuole far cadere il governo", purché "si facciano le riforme". Quanto all’ipotesi di rimpasto, la Serracchiani sottolinea: "La scelta compete solo ad Enrico Letta, io non ho chiesto un cambiamento politico ma solo un impegno a Zanonato" in merito alla vicenda Electrolux, ricordando di "non essere mai stata convocata" dal ministro stesso. "Le risposte il ministro deve darle ai lavoratori, la scelta dei ministri spetta a Letta", insiste.
"Alfano - incalza poi Serracchiani - sta lì da tempo, e al governo da qualche mese, non è che tutta la fretta del mondo deve essere addossata al Pd. Lui deve fare le sue proposte". "Renzi - insiste - ha proposto che il contributo del Pd dovrà essere portato in Direzione e votato da tutto il partito: non c’è nessun rinvio, dobbiamo fare le cose facendo partecipare tutto il partito, quindi in Direzione".

WIKIPEDIA
I collegi uninominali nei sistemi proporzionali
È possibile ricorrere a collegi uninominali anche in presenza di sistemi elettorali di tipo proporzionale, come quello adottato in Italia per l’elezione del Senato fino al 1993 e quello attualmente in vigore per l’elezione dei consigli provinciali. In tal caso, viene in genere meno il principio che prevede l’elezione di (almeno) un candidato per collegio.
L’attribuzione dei seggi nei sistemi proporzionali basati su collegi uninominali prevede anzitutto il conteggio su base aggregata (a livello totale o tramite circoscrizioni elettoriali) dei voti conseguiti dalle diverse liste elettorali. Sulla base delle aggregazioni suddette a ciascuna lista si attribuisce un certo numero di seggi. Scopo dei collegi è infatti stabilire quali candidati eleggere all’interno di ciascuna lista e costituisce pertanto un’alternativa al voto di preferenza o alle liste bloccate.
Generalmente, tali sistemi prevedono l’elezione dei candidati che abbiano conseguito, ciascuno nel proprio collegio, le più alte percentuali di voto rispetto ai candidati della medesima lista. Per tale ragione è possibile che in un collegio non vi siano eletti, oppure che ve ne siano più d’uno, e non necessariamente i più votati all’interno del collegio
Limiti e problematiche
I collegi vengono disegnati in base a criteri di omogeneità e continuità territoriale e sociale cercando di racchiudere in ogni unità un numero di elettori che non si discosti dalla media in una misura maggiore di quella tollerata dalla legge. Tuttavia col tempo i diversi tassi di variazione della popolazione possono alterare significativamente la consistenza numerica degli elettori per collegio, rendendo così periodicamente necessaria una delicata opera di revisione dei confini dei collegi uninominali.
Secondo molti osservatori, i meccanismi elettorali basati sui collegi presentano una serie di implicazioni negative, tra le quali la limitata possibilità, per gli elettori, di scegliere i candidati da eleggere. È invalsa infatti la consuetudine a candidare nei cosiddetti "collegi sicuri" gli esponenti politici di maggiore rilievo, in modo da accrescerne la probabilità di elezione. Per tale motivo, la definizione dei collegi è in genere ritenuta un’attività delicata, che dovrebbe pertanto richiedere commissioni imparziali.

ALDO GIANNULI SUL BLOG DI GRILLO
"Nell’incontro di oggi ci occuperemo dell’ampiezza delle circoscrizioni elettorali.
Ci sono due estremi. Il collegio uninominale, un solo candidato per ogni collegio, presente in Inghilterra e un unico collegio a livello nazionale, in cui tutti i candidati sono inclusi nel collegio nazionale, presente in Israele, poi ci sono varie soluzioni intermedie di collegi più o meno ampi.
Prima di tutto dobbiamo però sfatare un equivoco per cui il collegio uninominale si accompagna al sistema maggioritario e il sistema su lista sarebbe accoppiato al sistema proporzionale.
In realtà le cose non stanno così. Esistono sistemi proporzionali con collegi uninominali, come era per esempio al Senato in Italia, fino al 1994: i seggi venivano distribuiti proporzionalmente e poi veniva eletto il candidato all’interno di ciascun partito che aveva ottenuto la più alta percentuale nel suo collegio. Così come esistono sistemi su lista che sono maggioritari, per esempio nel caso dell’elezione del Presidente degli Stati Uniti, che tutti pensano essere eletto direttamente dal popolo, non è così, è eletto dall’assemblea dei grandi elettori. Ogni Stato ha un certo numero di grandi elettori, il candidato che prende un voto più degli altri si aggiudica tutti i grandi elettori dello Stato. Quindi esistono sia sistemi uninominali maggioritari sia uninominali proporzionali e sistemi su lista proporzionali e sistemi su lista maggioritari.
Quali sono i vantaggi e difetti di ciascuna di queste scelte?
Il sistema uninominale avvicina l’eletto al suo collegio, al suo elettorato, però comporta due svantaggi. Il primo è il maggiore condizionamento delle forze presenti in loco, per esempio è ovvio che in alcune regioni di Italia questo significa un maggiore peso di organizzazioni criminali. Viceversa il sistema nazionale unico tende a allontanare l’eletto dal territorio, però produce una classe dirigente tendenzialmente di livello culturale maggiore e più distaccata da interessi settoriali o particolari territoriali.
Il sistema uninominale sperimentato dal 1994 al 2001 ha spinto all’aumento delle richieste di natura creditoriale, come trasformare un paese in capoluogo di provincia, oppure costruire l’ennesimo aeroporto per dare più importanza al proprio collegio, per venire in contro alle esigenze, o istituire una università, in una località secondaria. Sempre con l’ottica del creare posti di lavoro, vantaggi, facilitazioni, per il proprio collegio elettorale. Quindi da un lato avvicina l’eletto ai suoi elettori, dall’altro spinge verso il particolarismo territoriale. Al contrario, il sistema nazionale, del collegio unico nazionale, comporta invece una classe politica sicuramente di livello maggiore e meno influenzabile dalle richieste particolaristiche territoriali, ma nello stesso tempo lo allontana, lo rende più molto autonomo dagli elettori.
Qual è il senso di tutto questo? Molto dipende dal sistema elettorale che si adotta. Ad esempio, se c’è un recupero nel collegio unico nazionale questo non incide sulla distribuzione dei seggi, ma al massimo sul tipo di classe politica che si seleziona. Se invece non c’è un collegio unico nazionale per il recupero dei resti, che cosa succede? Più grandi sono le circoscrizioni e più facilmente le piccole liste otterranno qualche rappresentante, mentre più piccole sono le circoscrizioni e più difficile sarà per le piccole liste riuscire a entrare.
Facciamo un esempio: in un collegio che elegge cinque deputati vuole dire che il collegio che la quota piena è il venti per cento. Se c’è un recupero dei resti si può dire che il 10 e mezzo - 11 per cento è una quota con cui si riesce a entrare, ma un partito che ha un 10 -11 per cento in una circoscrizione è un grande partito o è un partito a insediamento locale come la Lega. Riassumendo: collegi piccoli spingono al sindacalismo territoriale e a legare di più il deputato al contesto che lo ha espresso, di solito produce una classe politica di livello più basso, ma più legata alle tradizioni e interessi locali. Il collegio unico nazionale screma una classe politica di profilo più alto, ma nello stesso tempo più autonoma dall’elettorato, il collegio di dimensioni medie tende in qualche modo a mediare tra le due cose, magari con il recupero in un collegio unico nazionale.
Quindi la domanda è questa: quale collegio dobbiamo scegliere? Qui abbiamo tre ipotesi: uninominale, collegio unico nazionale o collegio intermedio. Aldo Giannuli
La prossima settimana ci sarà la consultazione sul blog sul tipo di collegio.

LA STAMPA DI STAMATTINA
L’accordo per ora tiene. Nonostante il fuoco di fila dei «piccoli», della sinistra Pd e di quanti preannunciano emendamenti alla legge. A cominciare dal Nuovo centrodestra. Per la ministra Beatrice Lorenzin, infatti, se la nuova legge elettorale deve conservare «un impianto bipolare», deve anche assicurare agli italiani «di poter scegliere i propri rappresentanti». Diversamente, fa capire, l’ex presidente del Senato, Renato Schifani, «non escludiamo di proporre un referendum abrogativo limitatamente alle liste bloccate, se la nuova legge elettorale non avrà le preferenze». Già, le preferenze. Nodo tra i nodi, oltre alla modalità di revisione dei collegi e alle soglie di sbarramento, che non passa inosservato in casa centrista dove Lorenzo Cesa, osserva, che «questa legge è peggio del porcellum, due persone non possono decidere chi va in Parlamento, è uno schiaffo alla democrazia». Contrari alle preferenze sono, invece, gli esponenti di Scelta Civica, «dentro la cornice dell’Italicum - chiarisce Benedetto Della Vedova - proporremo i collegi uninominali», mentre per la presidente della Camera, Laura Boldrini, «è importante che venga elaborato un testo che tenga conto delle istanze di tutti perché il pluralismo è un valore democratico». Domani in aula si comincia. E già il leghista Roberto Calderoni prevede un Vietnam, «la vedo molto male, fatti due conti non esce dalla commissione, non ci sono i numeri»

ALTRO PEZZO DELLA STAMPA DI STAMATTINA

Volendo credere a Calderoli, che nella giungla parlamentare si orienta come pochi, alla Camera da domani ne vedremo delle belle. Il padre del «Porcellum» ha fatto due conti: la riforma elettorale avrà vita durissima in commissione. E pure nel caso in cui superasse l’esame, «quasi certamente non avrebbe i numeri in aula» dove, va ricordato, si voterà a scrutinio segreto. «Inciamperà praticamente subito», scommette Calderoli, perché già al primo comma dell’articolo 1 verrà al pettine il nodo delle preferenze...».
Se Renzi riuscisse a imporre la disciplina di partito, questi dubbi non avrebbero fondamento. In commissione, dove entro martedì sera i giochi saranno fatti, Pd e Forza Italia hanno 26 dei 47 membri, la maggioranza. E in aula i due partiti sommano 360 deputati, 45 più di quanti ne occorrano per imporre il frutto dell’accordo tra Renzi e il Cavaliere. Ma la minoranza Pd è inquieta (un eufemismo). Questo pomeriggio si vedranno nuovamente i commissari democratici per chiarire se il testo-base è davvero tabù, ovvero può essere emendato d’intesa, si capisce, con Forza Italia. Bersaniani e dalemiani spingono per cambiare la bozza su tre punti. Primo: niente liste bloccate, al limite meglio 630 collegi con un solo candidato ciascuno, e ripartizione proporzionale dei seggi. Secondo: premio di maggioranza per chi supera il 40 per cento anziché il 35. Terzo: abbassare dall’8 al 5 per cento lo sbarramento per i partiti che volessero presentarsi fuori dalle alleanze.
I fedelissimi del segretario cosa rispondono? Che loro non avrebbero alcuna remora, però Berlusconi da quell’orecchio non ci vuol sentire. Anzi coglierebbe la palla al balzo per far saltare l’accordo, e allora niente riforma elettorale. Non solo: addio anche al «Senato gratis» (come lo chiama Renzi) e all’antidoto per le «disfunzioni regionali» (altra definizione del sindaco-segretario circa la riforma dei Titolo V). I leader hanno deciso, e al momento non si torna indietro. Anzi, sono pronti ad affrontare il voto segreto. Qui, effettivamente, potrà accadere di tutto. Sia che la riforma passi, sia che vada a gambe per aria insieme con il governo e la stessa legislatura. Già, perché tanto Renzi quanto i «berluscones» hanno chiarito che, in caso di bocciatura, questo Parlamento non sarebbe titolato a proseguire oltre.
Ecco dunque di nuovo il pallottoliere. Stime provenienti dai diretti interessati calcolano tra 90 e 100 i deputati Pd che, lasciati liberi, voterebbero per il ritorno alle preferenze. Chissà come si regoleranno nel segreto dell’urna. A questi possibili «franchi tiratori» bisogna aggiungere un altro paio di categorie interessate a scatenare un Vietnam parlamentare. Anzitutto coloro che, specie in Forza Italia, gradirebbero votare subito. E sarebbero pronti a tornare alle urne perfino con il mozzicone di legge tenuto vivo dalla Consulta (proporzionale puro e preferenza). L’altra categoria di potenziali «cecchini» è rappresentata da quanti sarebbero disposti ad affrontare le elezioni subito pur di tenersi la legge attuale, il «Consultellum» appunto, considerato un male minore della riforma in gestazione.
I 45 voti di maggioranza alla Camera sono insomma un vantaggio esiguo. Per mettersi al sicuro, Renzi dovrebbe trascinare dalla sua parte la Lega (20 deputati) con una normativa di vantaggio per i partiti su base territoriale; e poi anche il Nuovo centrodestra, abbassando da 5 al 4 per cento, e forse addirittura al 3, la soglia di sbarramento immaginata col Cavaliere. Il quale tuttavia si sente in una botte di ferro, comunque vada lui è soddisfatto, se casca il governo ancora di più. Come dice Brunetta, «è nella condizione di vincere su tutte le ruote».
Quanto a Renzi, il segretario Pd si mostra pronto ad affrontare le urne perfino a maggio. Secondo i suoi nemici interni è solo un «bluff». Però intanto mercoledì l’uomo potrebbe partecipare alla manifestazione dei sindaci in tensione con il governo. Sarebbe un segnale di quelli forti e chiari...

SARTORI SUL CDS DI STAMATTINA
Siccome sono io che ho inventato a suo tempo le etichette Mattarellum e poi Porcellum, oramai mi è venuto il vizio e così provo ancora. Italicum proprio non mi va. Sa di treno. Al momento proporrei Bastardellum. Ma si intende che si può trovare di meglio. Il punto che devo continuare a sottolineare è che la riforma elettorale è materia di legge ordinaria, mentre la riforma dello Stato è materia di legge costituzionale. E i tempi tra le due cose sono molto diversi, anche di due anni. Però se non vogliamo incappare in errori del passato le due cose devono essere armonizzate (nelle nostre teste) sin dall’inizio. Più volte si è suggerito come sistema elettorale il sistema spagnolo di piccoli collegi (5-6 eletti), il che comporta di fatto una alta soglia di sbarramento e così l’eliminazione della frammentazione partitica (noi siamo arrivati sino a 30 e passa), che ovviamente ostacolano la governabilità. Si capisce che i partitini protestano a squarciagola: era comodo (vedi Mastella) diventare ministro della Giustizia essendo in tutto in tre. Ma la salute della politica esig e c h e s p a r i s c a n o , e quando non ci sono più il dramma finisce. In Inghilterra nessuno piange se i partiti sono due o tre.
Fin qui ripeto cose risapute. La nostra novità (gemiti dei partitini a parte) è la proposta del doppio turno di coalizione, che a mio avviso non ha senso anche se D’Alimonte la presenta come proposta «realistica» che mette as- sieme capra e cavoli, Ren- zi e Berlusconi. A parte il fatto che a me sembra scorretto, scorrettissimo, trasformare con un premio una minoranza in una maggioranza (il che avviene anche nei sistemi maggioritari, ma perché questa è la natura del maggioritario, non un regalo che Renzi e Berlusconi fanno a se stessi). E la domanda è: il doppio turno di coalizione con ballottaggio cosa ci sta a fare in questo contesto? È una ulteriore elezione per fare o ottenere che cosa? Il premio di maggioranza attribuito a una coalizione di minoranza (addirittura del 35%) è secondo me molto discutibile. C’è poi l’annosa questione delle preferenze.
Le avevamo, e poi Pannella (con Segni) le fece abolire con due trionfali referendum. Era giusto, perché al Sud le preferenze erano molto alte e per ciò stesso ingrandite e manipolate dalla mafia. Aggiungi che il Pci di allora se ne serviva (quando erano tre) per controllare i voti dei suoi votanti infidi; mentre le preferenze al Nord erano relativamente poche e venivano facilmente pilotate dalle fazioni ben organizzate dei partiti di allora. Il bello è che per qualche decennio nessuno protestò dichiarando che senza preferenze g l i e l e t t i n o n e r a n o scelti dagli elettori ma dai partiti. Poi, d’un tratto, venne in mente alle nuove generazioni di politici e giornalisti che così gli eletti non erano veramente eletti dal demos votante ma «nominati» dai partiti. Stranezze della storia.