Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 23 Giovedì calendario

IL PIGLIO DEL RENZI DI OGGI RICORDA MOLTO IL DECISIONISMO CRAXIANO


Ritratto sintetico e brutale di un leader: «Vanitoso. Incapace di autocritica. Con una concezione di sé troppo alta. Prepotente. Umorale. Impulsivo. Rancoroso. Vendicativo». Sono i giudizi dati su di lui, sul leader, dagli oppositori interni. Lui potrebbe essere Matteo Renzi ma è Bettino Craxi in un articolo di Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera. È il 1976. Craxi ha quarantadue anni e si è appena preso il Partito socialista.

Le righe di Pansa fanno cassazione di un concetto espresso ieri sul Quotidiano nazionale da Claudio Martelli, che con Craxi ci lavorò per lustri. «È un decisionista, parla chiaro, lo considerano arrogante, è alle prese con un partito ancorato a vecchi schemi: di chi stiamo parlando?», chiede il giornalista. «Facile: sta parlando di Matteo Renzi, ma allude a Bettino Craxi. Io avrei usato parole diverse, ma la sostanza è quella», risponde Martelli.

La parola chiave è «arrogante». Anche «presuntuoso» o «padronale», ma soprattutto «arrogante». Dopo le dimissioni dell’altro giorno da presidente del Partito democratico, Gianni Cuperlo ha detto: «Renzi è un arrogante, vuole comandare a basta». Arrogante è il termine usato anche da Anna Finocchiaro, insieme con «qualunquista» e «indecente». Massimo D’Alema non ha mai detto «arrogante», ma «saputello» sì, visto che l’arroganza è un tratto del carattere che D’Alema sa di possedere, non se ne dispiace e lo concede malvolentieri ad altri.

Già questo aiuta a sostenere che è invece frettoloso e inefficace impegnare un paragone fra Renzi e Silvio Berlusconi. Gianni De Michelis - socialista e ministro degli anni craxiani - sottolinea che «Renzi non ha nulla in comune con Berlusconi e quantomeno nulla più di quanto avesse in comune Berlusconi con Craxi». È probabile, osserva De Michelis, che Renzi abbia «studiato Berlusconi e applicato a sé le inclinazioni ritenute più utili». L’uno e l’altro sanno stare in tv, sanno parlare alla gente, soprattutto sono due seduttori. Ma mentre Berlusconi dice di sì a tutti e non maltratta (quasi) nessuno, ma poi fa come gli pare, e in questo modo dimostra l’insofferenza per i pareri difformi dai suoi, Renzi non dice di sì a nessuno: a chi obietta o addirittura contesta, risponde con sarcasmo («Fassina chi?») e tracotanza (a Cuperlo, di colpo bramoso di preferenze dopo essere entrato nel Parlamento dei nominati senza nemmeno passare dalle primarie).

«È arrogante (non si scappa, ndr), sospettoso, incapace di avere contatti con le sezioni, con i compagni». Siamo tornati al 1976. A parlare è il socialista Giacomo Mancini. E Mancini era fra i sostenitori di Craxi segretario, sebbene lo stimasse fino a un certo punto e pensasse di accantonarlo alla prima occasione. «È un personaggio che rompe», aggiunge Mancini. Intende gli schemi e sottintende le scatole. Vittorio Gorresio scrive sulla Stampa che Craxi porta con sé «tutta l’arroganza e tutta la protervia degli apparatchiki», cioè dei burocrati, dei portaborse improvvisamente saliti al trono.

Un giornalista che per il suo riformismo sarà ammazzato, Walter Tobagi, sul Corriere osserva: «L’efficientismo craxiano sulle prime fu accolto con sufficienza». È la ragione per cui il piglio del Renzi di oggi ricorda molto a De Michelis «il decisionismo craxiano. In realtà Craxi era timido, chiuso, mentre Renzi è aperto ed espansivo. Diventano bruschi e sprezzanti perché si pongono un obiettivo e lo perseguono radendo al suolo burocrazie, rallentamenti formalistici, piccoli sabotaggi».

De Michelis avverte Renzi che Craxi di risultati ne raggiunse molti perché seguì lo schema dal 1976 al 1992, e perché gli andò sempre bene. «Poi quando gli andò male, gli andò molto male». Era a tavola, anno 1991. Si votava per il referendum sul maggioritario, un giornalista gli fece una domanda, lui la ascoltò poi si girò verso un commensale: «Passami l’olio». L’aria era cambiata e lui non se ne era accorto. Nel frattempo Indro Montanelli lo aveva definito «personaggio guappesco» ed Enrico Berlinguer un «pericolo per la democrazia». Eugenio Scalfari, spietato avversario di Craxi, rispondendo all’«uomo della provvidenza» visto da Ernesto Galli della Loggia, scrive di Renzi: «All’Italia serve un leader non un dittatore».

Anche Stefano Fassina individua un «problema di democrazia interna» e una «deriva padronale» per «intolleranza verso le critiche». Cuperlo stende una lettera: «Mi sono allontanato per la tua concezione del partito». Non va meglio nei dintorni: Alessandro Maran, senatore di Scelta civica, si dimette da relatore sulla legge del finanziamento ai partiti perché non gli va di essere «preso a calci». Vincenzo Piso (Ncd) alla Berlinguer o forse, meno ambiziosamente, alla Fassina, coglie uno «strano concetto della democrazia».

Claudio Velardi - che di D’Alema fu collaboratore quindici anni fa a Palazzo Chigi - ride e si butta a pesce: «Il raffronto fra Craxi e Renzi è perfetto: entrambi hanno a che fare con strutture di partito anchilosate (il Psi veniva da rovinose sconfitte elettorali, ndr), in cui prevalgono autolesionismo e cannibalismo. Quel Psi, come questo Pd, era dilaniato dalle correnti e il decisionismo, persino in una sua declinazione supponente, è un elemento decisivo e indispensabile per la sopravvivenza della leadership e del partito medesimo». Ne vien fuori un capo - sono ancora aggettivi di Pansa - «tenace, testardo, individualista, brusco di modo e talmente prepotente...». Se stavolta parlasse di Craxi o di Renzi, a questo punto conta poco.