Vito Tartamella, Focus 2/2014, 24 gennaio 2014
IL MESTIERE PIÙ VECCHIO DEL MONDO
La fabbrica Hathaway confezionava camicie da 114 anni a Waterville, piccola città del Maine. Ma negli Usa non la conosceva nessuno. Così, nel 1951, i suoi titolari si rivolsero a David Ogilvy, che aveva un’agenzia pubblicitaria a New York. Ogilvy scelse come modello un affascinante barone russo coi baffi, George Wrangell: avrebbe dato un’esclusività snob a quegli abiti provinciali. Ma non bastava. Ogilvy si ricordò di una foto che l’aveva colpito: l’ambasciatore Lewis Williams Douglas con una benda sull’occhio, ferito durante una battuta di pesca. Ogilvy comprò una benda per occhi da un dollaro e mezzo, e la fece indossare a Wrangell.
PIRATI. Di quell’immagine da pirata parlarono le riviste Time, Life e Fortune, e le camicie Hathaway diventarono le più vendute al mondo. Non fu un colpo di fortuna: «Quella benda» spiegò Ogilvy «era insolita e catturava l’attenzione del lettore. Che guarda la foto e si chiede: “Cosa succede?”. La trappola è scattata». Già a quell’epoca, la pubblicità mostrava il suo potere: poteva determinare la fortuna di un’azienda o di un politico, ma anche inaugurare nuove forme d’espressione, rivoluzionare le abitudini delle masse, svelare i meccanismi dell’economia e della nostra mente. Del resto, già allora, la pubblicità aveva una lunga storia alle spalle. Ma chi l’ha inventata, e quando? Come si è sviluppata per arrivare oggi ad affrontare il mercato globale?
CERCA PERSONE. Tutto iniziò all’ombra del Vesuvio, nel 79 d. C., con un graffito su un muro sopravvissuto fino a noi: “A Nocera, presso Porta Romana, nel quartiere di Venere, chiedi di Novella Primigenia”. Era l’annuncio di una donna di piacere: la prostituzione e la pubblicità, hanno commentato alcuni storici maliziosi, sono i mestieri più antichi del mondo e beneficiano l’uno dall’altro.
In realtà la pubblicità è figlia dei progressi tecnologici, in particolare della stampa a caratteri mobili che portò, nel ’600, alla nascita dei primi giornali. A Parigi il titolare di un ufficio di collocamento, Théofraste Renaudot, creò nel 1631 La Gazette, il primo giornale francese: vi pubblicò inserzioni per la ricerca di personale.
Per i primi annunci dei prodotti bisognava aspettare un’altra tappa tecnologica: la rivoluzione industriale. Gli imprenditori avevano bisogno di raccomandare le proprie merci, distribuite in grandi quantità, a clienti che non avrebbero mai potuto incontrare di persona. Dunque, gli imbonitori di piazza non bastavano più. E per differenziarsi dai concorrenti, le ditte avevano bisogno di essere riconoscibili, oltre a dover creare un rapporto di fiducia a distanza. «Le fabbriche» dice Torin Douglas, autore di The complete guide to advertising «confezionarono i prodotti non solo per preservarli, ma anche per affermare la loro qualità tramite l’uso del nome dell’impresa. Invece di lasciare al dettagliante la scelta di determinare quale prodotto far comprare al cliente, iniziarono a stabilire una relazione diretta col consumatore». Di qui gli annunci delle merci più disparate sui giornali, ma anche su volantini e poster. E proprio sui poster si consumò, sempre in Francia, il matrimonio tra arte e pubblicità: nel 1866 Jules Chéret grazie alla litografia (che consentiva colori più vivaci e alte quantità di stampa) disegnò poster per i cabaret delle Folies-Bergère. Lo stesso fece Henri de Toulouse-Lautrec per il Moulin Rouge.
Nel Regno Unito, le nozze con l’arte divennero indissolubili: nel 1886 Thomas Barratt, manager del sapone Pears, comprò per 2.500 sterline Bubbles (bolle di sapone), un quadro di John Everett Millais. Ritraeva un bimbo che guardava incantato una bolla galleggiante sulla sua testa. Barratt vi aggiunse il nome della marca e lo slogan “Buon mattino. Hai usato il sapone Pears?”. L’immagine diventò il logo dell’azienda.
Ma la pubblicità non si resse per molto su intuizioni fortuite: negli Usa nascevano le prime agenzie. Il primo copywriter (autore di annunci) fu John E. Powers, a fine ’800. Credeva nello stile diretto: una ditta di vestiti di Pittsburgh in crisi gli commissionò una campagna. Lui scrisse: “Siamo alla bancarotta. Questo annuncio condurrà i nostri creditori a saltarci addosso. Ma se domani verrete a comprare da noi, avremo i soldi per pagarli. Altrimenti saremo con le spalle al muro”. I clienti accorsero a salvare il negozio.
MODELLI DA SOGNO. Presto, però, ci si accorse che uno slogan efficace non bastava: i clienti dovevano essere colpiti da immagini. Così i pubblicitari Earnest Calkins e Ralph Holden, nel 1905, per lanciare le camicie Arrow ingaggiarono un illustratore, Joseph Christian Leyendecker. Che, usando come modello il proprio amante (Charles Beach), disegnò uomini «alti, provocanti, eleganti, con un’irresistibile aura di nonchalance, e zigomi che risplendevano su colletti impeccabili. Gli uomini volevano assomigliargli e le donne li desideravano» racconta Mark Tungate in Storia della pubblicità (Franco Angeli). «Al punto che ricevettero lettere da ammiratrici e ammiratori».
Oltre all’arte, la pubblicità trovò presto un’altra gamba su cui poggiarsi: la scienza, ovvero, la profonda conoscenza del proprio mercato di riferimento. Ne era convinto un pubblicitario di Chicago, Claude Hopkins: negli Anni ’20, per promuovere la birra Schlitz, scoprì che le bottiglie erano pulite con un sistema a vapore, come in tutti i birrifici. Ma nessuno l’aveva mai sbandierato: Hopkins lo fece, dando così l’impressione che la Schlitz tenesse all’igiene più dei concorrenti. Il salto fu compiuto nel 1932 dal pubblicitario Raymond Rubicam: assunse George Gallup, docente di marketing alla Northwestern University, creando così la prima agenzia con un dipartimento per le ricerche di mercato. Si studiavano il prodotto, i concorrenti, ma anche l’atteggiamento degli acquirenti, dunque la sociologia e la psicologia. Una macchina da guerra. La politica ne intuì il potere fin dal 1909, coi manifesti delle suffragette che chiedevano il voto in Inghilterra. La pubblicità fu poi determinante per la propaganda, dall’arruolamento per la Prima guerra mondiale (lo Zio Sam negli Usa) ai successi elettorali di Margaret Thatcher (1978), François Mitterrand (1981) e Nelson Mandola (1992).
REGISTI. Nel frattempo, la réclame evolveva con nuovi mezzi di comunicazione: il cinema (il primo spot del 1904, per lo champagne Moët & Chandon, fu dei fratelli Lumière), la fotografia (usata dal 1920 per i pianoforti Steinway), la radio (nel 1922, su AT&T per un’immobiliare di New York) e infine la tv. Il primo spot (10’, 1941) fu la foto di un orologio sulla cartina degli Usa e lo slogan: “L’America segue il tempo di Bulova”. Ci vollero anni, e il talento di Alan Parker, per svelare le potenzialità di questo mezzo.
A fine Anni ’60 Parker lavorava come fattorino all’agenzia londinese Collett Dickenson Pearce: convinse i titolari a comprare una cinepresa da 16 mm e girò i primi spot nello scantinato, usando i colleghi come attori. Firmò video per Cinzano e diventò un regista affermato. Alcuni spot hanno cambiato l’economia e il costume: nel 1983 l’agenzia BBH, con un modello che entra in una lavanderia degli Anni ’50, si spoglia e infila i jeans in lavatrice, rilanciò su scala planetaria i Levi’s e anche i boxer. Nel 1984 il regista di Blade Runner, Ridley Scott, fece la fortuna del Macintosh di Steve Jobs: riprese un’atleta, inseguita da poliziotti, che scagliava un martello contro uno schermo da cui un dittatore arringava la folla. E lo slogan: “Col nuovo Macintosh vedrete perché il 1984 non sarà come 1984” (il romanzo di George Orwell). Il video fu lanciato durante il SuperBowl, la finale del football americano (100 milioni di spettatori); il Mac vendette il 40% in più del previsto, consacrando il SuperBowl vetrina per il miglior spot: 30” oggi costano 4 milioni di dollari.
GIGANTI. Le agenzie pubblicitarie diventarono colossi miliardari. Nel 1986, DDB e BBDO creavano la Omicom, che l’anno scorso ha annunciato l’ulteriore fusione con Publicis, generando una multinazionale da 130 mila dipendenti. Scriveva 28 anni fa il New York Times: “La pubblicità ha uno status enorme perché è responsabile delle differenze percepite in prodotti in cui, per il progresso tecnologico, spesso le differenze non esistono più. Una forte pressione sta spingendo le agenzie verso l’espansione internazionale, per soddisfare gli obiettivi di marketing dei loro clienti. Presto esisterà solo una manciata di gigantesche multinazionali e una moltitudine di piccole agenzie locali”. La profezia s’è avverata, non senza scossoni: molti marchi si sono ritrovati seguiti dalla stessa agenzia dei diretti concorrenti. E gli alti obiettivi di budget fissati dai network globali hanno finito per strangolare le agenzie locali.
SFIDE. Nel frattempo è cambiata l’economia. «Si è passati dal mercato di massa (Anni ’50-’70) al mercato frammentato (Anni ’80-’90, con prodotti per segmenti diversi di mercato) fino al mercato personalizzato, fatto non più di masse ma di individui, sempre più selettivi, esigenti e disincantati, oltre che bombardati da messaggi» dice Antonio Foglio, docente di marketing. E la saturazione dei media, o “smog dei dati”, dice lo scrittore David Shenk: i consumatori sono bombardati da oltre 3.000 pubblicità al giorno, dalle etichette sui vestiti alle insegne. Ecco perché oggi la pubblicità deve essere globale e al tempo stesso personale, basata su eventi coinvolgenti. Il futuro, forse, lo sta inventando un gruppo di giovani in uno scantinato di Pechino. E deve fare i conti con un’altra invenzione: il Web.
Vito Tartamella