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 2014  gennaio 24 Venerdì calendario

LETTERE IN CODICE E ALTRI SEGRETI I MISTERI DEL COMPAGNO D’ARIA CHE HA FATTO PARLARE TOTÒ RIINA


Una vecchia foto segnaletica lo racconta con la faccia scavata, il pizzetto curato, i capelli ricci da dandy. Ma per cercare di capire chi è Alberto Lorusso, l’uomo che ha fatto parlare Totò Riina, forse è il caso di partire dal suo curriculum. E trattandosi di un malavitoso è bene partire dalla sua fedina penale. Lorusso non ha nulla a che fare con la Sacra corona unita. Il confidente di Riina è il capobastone di Grottaglie, città in provincia di Taranto, che mai è stata controllata della quarta mafia pugliese. Questo non significa che non fosse una città di malavita. Lo era. E a partire dalla fine degli anni ‘80 era nelle mani proprio di Lorusso, bossetto di paese che amava farsi vedere. Lo ricordano in città: «Locali, automobili, abiti di lusso e bella vita». Una vita dispendiosa. Per finanziarsi i canali erano due: spaccio di droga ed estorsioni.
Bisogna partire da qui per raccontare il primo episodio che inchioda Lorusso. Il 5 agosto del 1990 sparisce da Grottaglie Fulvio Costone, piccolo malavitoso locale. Per quasi sette anni non se ne saprà nulla. Sette anni dopo spunteranno in una campagna fuori dalla città alcuni suoi resti: un colpo sparato in testa, così avevano ammazzato Costone. E il suo killer era proprio Lorusso che per questo motivo verrà condannato a 23 anni di carcere. Perché quell’esecuzione? «Storia di donne» diranno i pentiti. In realtà, accerteranno le indagini, dietro c’era una storia di droga. Il capo nella zona era lui e Costone aveva cercato in qualche modo di prendersi una parte del territorio. E quello sì era un affronto intollerabile.
Lorusso era il referente del clan De Vitis, ricostruiscono le pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, che osò sfidare, proprio negli anni ‘90, l’egemonia del clan Modeo lasciando per terra in poco meno di tre anni 150 morti. Cinque omicidi al mese. Una mattanza. Ma la torta da dividersi era tanta, il business dello spaccio — i contatti con i trafficanti albanesi, il canale con la camorra napoletana, il porto lì a due passi — era faccenda da miliardi di lire. Ciascun mezzo era lecito. E che Lorusso fosse al centro di questa storia lo dimostrano le due condanne nei maxi processi alla mafia tarantina che il boss pugliese ha incassato: 10 anni e 16 anni.
Fin qui però arriva la storia giudiziaria del criminale Lorusso. Perché poi immediatamente dopo comincia invece quella del carcerato Lorusso, quella che lo porta a diventare il confidente del capo dei capi, lui che al massimo era stato il capo di una modesta città criminale. Che ci faceva uno così al 41 bis? «Un errore» spiega il suo legale, Gaetano Vitale.
Tutto comincia poco più di un anno fa quando, durante una perquisizione in cella, a Lorusso vengono sequestrate in cella alcune lettere. «Sono d’amore, per mia moglie» racconterà lui ai magistrati. Racconta una bugia. Anzi almeno due. La prima: Lorusso non ha mai smesso il suo mestiere, quello di criminale. Manda tramite la moglie segnali all’esterno per fare in modo che il suo territorio, quello di Grottaglie, continui a essere sua competenza. I soldi delle estorsioni gli servono a campare la famiglia, i figli e a sostenere la sua vita da carcerato.
I suoi figli: Lorusso ne ha tre, avuti da due compagne diverse. Eppure a Riina, conosciuto in carcere, racconta un’altra storia. Dice di essere sposato con una sola donna e si raccomanda ai familiari di non svelare mai la bugia. Perché ha mentito? Perché Lorusso ha voluto ingraziarsi Riina? È per questo che i magistrati si interessano alla sua storia. Ed è per questo che arrivano anche alle sue lettere, dove è nascosta la seconda grande bugia.
Quelle non sono lettere d’amore. Perché all’interno ci anche strani simboli: «Sono lettere aramaiche e fenicie, io conosco quei codici, ma è un gioco» racconterà ai magistrati di Palermo che corrono a interrogarlo. Oltre a notare quegli strani segni, c’è però un altro particolare inquietante: le parole Liggio, attentato, Bagarella e papello sono scritte con le lettere capovolte, e per questo leggibili soltanto allo specchio. «Una provocazione» ripete Lorusso ai pm che lo interrogano. Senza però riuscire a dare troppe spiegazioni sulle sue doti divinatorie: era a conoscenza che i pm di Palermo, per solidarietà con il pm Nino Di Matteo, avrebbero voluto partecipare tutti all’udienza della trattativa Stato-mafia. La notizia era circolata soltanto sulla mailing list interna dei magistrati. Ma Lorusso lo sapeva.