Enzo Bettiza, La Stampa 24/1/2014, 24 gennaio 2014
1914, L’ANNO CHE UCCISE L’OTTIMISMO
Ho avuto l’impressione, sfogliando giornali e guardando la televisione nei primi giorni di questo mese, che diversi rievocatori dell’anno 1914 tendessero a conferire a quella data uno smalto storico eccessivo e, per certi aspetti, anche un po’ ipocrita. Non sempre si riusciva a percepire nelle parole dei commentatori, spesso enigmatiche o superficiali, il distacco censorio che quella data sostanzialmente funesta avrebbe meritato di subire per tantissime ragioni.
La lustratura storicistica dava la sensazione di prevalere su una più opportuna e ben mirata caratura critica.
In quel fatidico 28 giugno 1914, santabarbara della prima guerra mondiale, l’attentatore serbo Gavrilo Princip non ancora ventenne, sparando all’arciduca Francesco Ferdinando in visita a Sarajevo, aveva non soltanto ucciso il nipote di Francesco Giuseppe ed erede al trono d’Austria. Aveva anche completato la tragica spirale di lutti familiari dell’imperatore triste. Lutti talmente e inesorabilmente puntuali da sembrare senza scampo, quasi cadenzati dal fato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento in poi: il fratello Massimiliano fucilato in Messico, il figlio Rodolfo misteriosamente suicida a Mayerling, infine la moglie Elisabetta assassinata a Ginevra nel 1898. Quella processione di auguste pompe funebri, destinata ad accrescere in uno strano disordine (così lo ricordo) le bare nella viennese Cripta dei Cappuccini, doveva segnare l’inarrestabile cammino della monarchia absburgica verso il tunnel senza uscita del 1914-18. A prescindere dai saggi storiografici, la letteratura pura, in specie una certa alta letteratura crepuscolare mitteleuropea, da Hofmannsthal a Joseph Roth, fino alla surreale sommità di Kafka, non si spiegherebbe del tutto senza i forti e variegati umori etnici del rissoso bacino austroungarico.
Tutto quel mondo scomparso, distillato nei vagiti di una modernità incipiente, ma non sempre di facile accesso, rivive almeno in parte nelle odierne ricorrenze centenarie del 1914. Diversi studiosi sostengono che l’epoca sempre più incerta e violenta, in cui siamo già entrati, assomigli per tanti aspetti a quella che nel 1914 segnò la fine dell’Ottocento ottimista, preannunciando nel contempo un Novecento foriero di tutto il peggio che abbiamo conosciuto fino alla caduta del Muro di Berlino. Saremmo insomma alle soglie di un male di ritorno, un male sommerso ma di lunga data e lunghissima memoria, che non ha mai dimenticato la propria capacità e volontà di colpire e distruggere. In altre parole: una ripresa del nichilismo, che già ebbe in Nietzsche il suo geniale profeta, per il quale la volontà di potenza, cioè di distruzione o autodistruzione, ha sempre accompagnato come un’ombra corroborante quanto sinistra le conquiste «buone» della civiltà occidentale.
Era qui, è qui l’aura contagiosa e losca che avvertiamo spirare tuttora con sottile e malvagia longevità dai bassifondi, mai completamente disinquinati, del fatidico 1914. Creazione e distruzione, vita e morte sembrano quasi sorreggersi le une alle altre nella duplicità di una data equivoca, in una tensione che fin da allora preannunciava soprattutto guerre, rivoluzioni, carneficine e carestie. Dall’estate fatale del 1914 alla Grande guerra, come la si chiamò per tanto tempo, il passo fu breve. Trenta giorni dopo i colpi di pistola a Sarajevo, l’Europa precipiterà in un conflitto fratricida che non durerà quattro settimane, come si proclamava e scriveva a destra e manca, bensì quattro anni infernali: trincee spettrali, assalti alla baionetta contro mitragliatrici implacabili, gas tossici e primi bombardamenti aerei. Il tutto sfocerà in una carneficina mai vista prima di allora, con un conto umano spaventoso di sedici milioni di morti. Se gli scontri si fossero esauriti in un mese, come predicavano i politici sonnambuli dell’epoca, i caduti avrebbero a malapena raggiunto la cifra di cinquantamila.
Ma al di là d’ogni dato statistico, che doveva comunque incombere sul resoconto dei soldati morti in guerra e dei sopravvissuti in prigionia, si stagliava il grande naufragio che, insieme con la rivoluzione russa, doveva segnare la fine della fine dell’Ottocento europeo: il crollo e la dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Fu quella una sciagura tremendamente fisica e immane. Sull’iceberg inatteso della Grande guerra colò a picco il Titanic austroungarico, il quale si estendeva per 666.868 chilometri quadrati dalle Bocche di Cattaro fino alla Bucovina: poco meno di 40 milioni d’abitanti di varia etnia, idiomi diversi e religioni spesso contrastanti. Il più vasto Paese d’Europa dopo la Russia oppure, come diceva Scipio Slataper, «il secondo impero slavo dopo quello russo».
In nessuna parte del continente, quanto nelle terre che fino al 1918 appartennero alla duplice monarchia, il violento inizio del Novecento doveva produrre tante inattese novità e altrettante paradossali assurdità. Il Titanic bicipite, inabissandosi, costrinse milioni di naufraghi a cercare scampo sulle zattere di nuovi Stati posticci, come la Ceco-Slovacchia o la Jugo-Slavia, o su relitti riemersi all’improvviso da un glorioso passato come la Polonia. Quel trasloco repentino da un ampio e tollerante impero sovrannazionale alle ristrette dimensioni di piccoli imperi multinazionali, con confini bizzarri e arbitrari, doveva da un giorno all’altro modificare in profondità il modo di vita, il sentimento della legge, perfino l’identità culturale e geografica di tantissime famiglie «absburgiche».
Il mio sguardo iniziale sul secolo si aprì dunque, fra ombre bivalenti e storie risentite e spesso nemiche, in una regione come la Dalmazia non lontana dal luogo in cui l’estremo Ottocento s’incenerì per un cortocircuito quasi casuale. La Bosnia, l’Erzegovina, Sarajevo erano lì, sull’angolo di casa, a un tiro di rivoltella regicida. L’arciduca ereditario, l’arciduchessa Sofia, l’attentatore Princip, i congiurati delle sette serbobosniache ispirate alle gesta dei terroristi russi erano per me, cullato dai racconti fiabeschi della servitù slava, fantasmi familiari ancorché non sempre afferrabili e comprensibili. I volti sempre cangianti di Francesco Giuseppe, di Francesco Ferdinando, di Gavrilo Princip mutavano espressione, smorfia, cipiglio, sguardo, a seconda dell’ottica e dei pregiudizi ideologici di chi li riproponeva alla mia fantasia smarrita nei labirinti di un mondo perduto. Dove non era dato mai di sapere in definitiva chi fosse l’eroe buono, chi l’intrigante cattivo, chi il neutrale cauto e astuto. Tutto mi appariva duplice, indefinibile, ma appunto perciò sommamente vivibile, come doveva essere stato con maggiore nettezza nelle terre imperial-regie in cui i genitori e gli avi erano cresciuti in un clima di sicurezza e serenità. L’ambiguità lucida, se vogliamo una sorta di bivalenza romanzesca perpetua, era la chiave segreta consegnata da una civiltà senza nome, da una capitale mutevole, da una cultura intrisa di psicanalisi e d’ironia ai cenacoli che non si facevano vedere perché evitavano di riunirsi con clamore e manifesti pubblici. Il riserbo doveva prevalere su ogni effimera tentazione esibizionistica.
Qui, è quasi impossibile dimenticare Musil, l’uomo senza qualità che in fondo era lui stesso. Si sa che l’impero austriaco, o austroungarico, o absburgico, era stato un impero piuttosto alla mano, tollerante, paziente, senza qualità eccelse, clericale e liberale o liberalclericale nello stesso tempo. Non a caso non ha saputo mai definirsi con un nome unico, uno solo, imprimibile nella memoria come République française o United Kingdom. Lo stesso Musil, il più austriaco degli scrittori austriaci, ha dovuto, per definirlo, inventarsi un neologismo insieme nostalgico, irrisorio e parodistico. Kakania: come dire tutto e niente.