Luca Rocca, Il Tempo 24/1/2014, 24 gennaio 2014
STORIA DI UN AGENTE PROVOCATORE E DEL (LOQUACE) SEPOLTO VIVO RIINA
Per capire in profondità la vicenda della resurrezione mediatica del sepolto vivo, ma loquacissimo, Totò Riina occorre procedere per gradi. E partire dal suo compagno di passeggiate nell’ora d’aria in 41 bis, tal Lorusso, pregiudicato della criminalità pugliese che oltre a scontare il carcere duro come il corleonese, intratterrebbe rapporti (a leggere Repubblica, e non solo Repubblica) con misteriosi apparati polizieschi. Parlando liberamente con questo «compagno d’aria» Totò lancia accuse qua e di là, alcune delle quali indirizzate anche a Di Matteo, il pm dello sgangherato processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. L’ex capo dei capi finisce intercettato mentre parla anche del famigerato «papello», di Napolitano, di Berlusconi e chi più ne ha più ne metta. Ne discute con questo criminale, la cui voce nella cimice risulta nitida, al contrario di quella di Riina. Ma chi è questo Lorusso? Chi l’ha selezionato per farlo passeggiare insieme a Riina? Chi l’ha invitato a stuzzicare il Padrino per indurlo a parlare? E soprattutto, se sono veri i riferimenti agli apparati polizieschi, chi l’ha individuato come «agente provocatore» era consapevole dei rischi che poteva correre - per dire - proprio Di Matteo? A questi interrogativi se ne aggiungono altri, ovvero su cosa ci sia di vero (e di falso) nelle parole del boss, e quale contributo potrebbero dare queste intercettazioni al processo-trattativa. Andiamo per ordine. Il nostro ordinamento non prevede la figura del cosiddetto «agente provocatore», tanto che ieri al Foglio il vicepresidente della Commissione antimafia, Claudio Fava ha affermato: «Se davvero questo Lorusso fosse un agente provocatore, un uomo che lavora per gli apparati di polizia, la cosa sarebbe gravissima». Ma non lo sarebbe solo per questa evidenza. Ieri sul Fatto Quotidiano, a proposito di Lorusso, definito «cimice umana», si leggeva: «Lorusso è espertissimo nel far filtrare fuori dal carcere ordini criminali, in codice». Se è così, e alcuni fatti recenti lo dimostrano, perché per «strappare» qualche parola a Riina si utilizza un uomo così, in grado di carpire possibili messaggi in codice, chissà quanto pericolosi, e farli pervenire all’esterno? E se Riina, con le sue parole, avesse voluto dare degli ordini per dare il via a qualche operazione (ammesso che sia ancora in grado di farlo), chi se ne assumerebbe la responsabilità? Il Dap? La Dna? I magistrati? O nessuno? Ieri il Di Matteo ha affermato che «fino a qualche anno fa, precise risultanze investigative facevano emergere che i capi in libertà di Cosa Nostra, non volevano o non potevano prendere determinate decisioni se non acquisendo l’avallo e il consenso di quello che loro ritenevano il vero capo di Cosa Nostra, e cioè Salvatore Riina. Questa è la situazione che quantomeno fa sospettare che ancora oggi certamente Riina possa tentare di esercitare un ruolo di comando». E allora, se Riina è ritenuto ancora temibile, perché farlo avvicinare da un uomo pericoloso come Lorusso? Quello che dice Riina è vero, verosimile, un po’ vero e un po’ falso o totalmente falso? Le alternative sono due: o Riina sospetta di essere intercettato e allora dice ciò che vuole e s’inventa di tutto, magari per far pensare di essere ancora potente, oppure non lo sospetta affatto e allora ciò che dice va preso tutto per buono e poi vagliato. Ma in questo secondo caso, dunque, andrebbero prese sul serio non solo le minacce a Di Matteo e anche a Berlusconi, non solo le parole sul «papello» («io l’ appunto gliel’ho lasciato»), ma anche alcune cose che dice di Provenzano, una su tutte: «Binnu non era del convento mio, certo lo rispettavo, ma lui era convinto che le cose erano a tarallucci e vino. Era un ragazzo dabbene, non un ragazzo che poteva fare malavita, non aveva niente a che vedere con la mafia». Provenzano un non-mafioso? Di tutte le parole di Riina, ad incidere sul processo sulla Trattativa potrebbero essere quelle relative all’«appunto», cioè al «papello». Ma cosa possono aggiungere ad un processo le parole di un mafioso dette a un altro mafioso, intercettati a loro insaputa o forse no, se non c’è un minimo riscontro fattuale, visto che finora di fatti non ce n’è nemmeno l’ombra? Infine il filmato. Visionandolo bene si ha la sensazione che la voce di Lorusso si senta bene, chiara, tanto da capire ciò che dice senza bisogno di leggere i sottotitoli. Al contrario le parole di Totò Riina sembrano incomprensibili e tali rimarrebbero senza le scritte in sovraimpressione. Questo dimostra forse che la «cimice umana» è tale perché, forse, ha una cimice addosso? Impossibile dare risposta a questa domanda. Sempre ieri il pm Di Matteo, intervistato dal Gr1, ha detto testualmente: «Registrare la vicinanza di tanti semplici cittadini è motivo ulteriore di conforto. Questa solidarietà sopperisce a qualche silenzio e perplessità di fondo e a qualche malignità di chi ha persino messo in dubbio quello che è stato oggetto delle intercettazioni. C’è sempre chi parla di minacce inventate. Sono storie che fanno parte, purtroppo, di quella mentalità mafiosa che tende a delegittimare i magistrati». Chi critica un pm (Di Matteo) per i gravissimi errori che hanno portato in carcere persone innocenti, è un mafioso? Chi fa notare che verbali scottanti e chiarificatori (fatti anche da Di Matteo), che avrebbero potuto far conoscere rapidamente la verità sull’uccisione di Borsellino, sono stati tenuti da parte e ne è stata negata l’esistenza, è un mafioso? Chi pone dei dubbi sulle parole di Riina, come fanno anche Repubblica e il Foglio, Libero o Il Tempo, è «mentalmente mafioso»? Chi si ponte interrogativi sul reale ruolo di questo Lorusso, mafioso sì, ma vicino ad apparati polizieschi, è un mafioso? Chi ricorda le perplessità sulla versione dei fatti di Vincenzo Scarantino a proposito della strage di via D’Amelio, erano state messe nero su bianco già nel 1994 dalla Boccassini e completamente ignorate anche da Di Matteo, è un mafioso?
Luca Rocca