Enrico Deaglio, Il Venerdì 24/1/2014, 24 gennaio 2014
PERCHÉ NESSUNO DICE LA VERITÀ?
Los Angeles. La signora Meryl Streep, totale antidiva, è di una cortesia e naturalezza struggenti; ha molto interesse ascoltare e molto spesso scoppia in una brevissima risata. Indossa una camicetta e golfino, ha pochissimo trucco, i capelli raccolti e gli occhi ancora straordinariamente azzurri. L’attrice che è stata Sophie nell’olocausto, Margaret Thatcher, la fidanzatina d’America ai tempi del Vietnam Cacciatore, la Ur-Donna mediterranea di Mia!, la dispotica direttrice di Vogue, una tale, naturale, saggezza da potersi identificare in un milione di donne tutte insieme. Se solo si mettesse un paio di occhiali, potrebbe essere una bibliotecaria, una professoressa, una nonna. Se fosse sul bus, ne potrebbe essere la guidatrice, o quella che è salita senza biglietto.
Quando la incontro a Los Angeles, ha appena ricevuto la 18esima nomination all’Oscar in quarant’anni di carriera, per il ruolo di assoluta protagonista in August: Osage County. Sono davanti all’icona del cinema americano. La Katharine Hepburn della sua generazione.
In August: Osage County (in uscita in Italia il 30 gennaio con il titolo I segreti di Osage County) questa tranquilla signora la vedrete trasformata in una sorta di moderna strega. Grida, balla, spacca piatti, salta addosso alla figlia, si toglie la parrucca per rivelare i danni della chemioterapia, fuma, ingurgita pillole, vomita, corre nelle praterie dell’Oklahoma e infine si addormenta esausta sul petto della domestica, una native american. È Violet Weston, vedova di un marito poeta alcolizzato e suicida. Per i suoi funerali sono arrivate nella vecchia casa di campagna le sue tre figlie e le loro famiglie; il pranzo intorno alla grande tavola è l’occasione per la rivelazione dissacrante dei segreti di famiglia, secondo una antica struttura del teatro americano. Il film (diretto da John Wells, con un cast eccezionale, tra cui Julia Roberts) è tratto dall’omonima pièce di Tracy Letts; super premiata e considerata sulla scia di Tennessee Williams. Testo nero, angosciante, caustico e di vitalità disperata.
Le è piaciuto essere Violet Weston?
(Ride) «È stato durissimo, come un’intossicazione, essere per 12 ore al giorno nella sua pelle. Dover tenere un mozzicone di sigaretta in bocca per tutto il tempo. Le assicuro che era una liberazione tornare a casa e cucinare per i miei amici. Gli amici, appunto. Violet non ne ha, lei era sola e fumava tutto il giorno. Ma ero vicina a lei nel suo essere inconsolabile. Noi siamo abituati a vedere, alla fine della vita, e specialmente nei film, donne con il cancro. Ma non vediamo mai nessuno arrabbiato come Violet, contro la vita, senza fede. Violet è cattiva, certo, ma è incapace di mentire, dice cose terribili, qualche volta per fare male, qualche volta è solo la pura verità. E poi non vuole morire, ha l’istinto di una bestia ferita, si difende come un animale».
Chi è Violet Weston?
«Sulla pièce di Tracy Letts c’è stata una grande discussione. Violet è stata vista come la metafora dell’America, della sua violenza e della sua disperazione. Io preferisco vederla come una donna, figlia di quella che qui, retoricamente, si chiama la greatest generation, la generazione che ha conosciuto la povertà, la Depressione e che ha combattuto la guerra. Questa generazione sta morendo; Violet ha avuto una storia di depravazione intorno a lei, è stata sfruttata, abusata, gli uomini l’hanno trattata male. Per queste donne, davvero, i figli erano l’unico faro della vita. Nel film, per esempio, Violet e sua sorella si lamentano della vecchiaia. Concordano sul fatto che gli uomini non vogliono più le donne vecchie; l’unica che è riuscita a rimanere sexy è stata Sophia Loren (e l’unica che non aveva bisogno di mettersi il make up era Liz Taylor). Eccezioni . Sanno bene che quella degli uomini è una società ingrata, e che per le donne l’unica possibilità è di “cercare di sembrare” giovani. E questo, il “sembrare giovani”, è un concetto malvagio. Ma purtroppo (ride) è la verità ed è il concetto del momento, almeno nella cultura americana ».
Violet è dunque un messaggio femminista?
«Si potrebbe anche dire così. Violet rappresenta una generazione di donne che è stata privata praticamente di tutto e che è vissuta solo attraverso i propri figli. Farli studiare, mentre loro non avevano potuto farlo. La sua reazione violenta è per la delusione che le figlie le provocano ».
Ci sono ancora donne come Violet?
«Ce ne sono meno, fortunatamente. Le donne oggi hanno più opportunità, più scelte».
Meryl Streep, 64 enne, vive a New York, ha un marito scultore e quattro figli, tre ragazze e un ragazzo. Una delle figlie lavora associata all’università di Bologna. Meryl ha studiato nel molto impegnativo ed esclusivo Vassar College di New York, e poi teatro a Yale. Un corso di un anno di italiano all’università le è risultato utile agli inizi della carriera. Aveva partecipato ai provini per King Kong («per la parte della ragazza») e il produttore Dino De Laurentiis aveva incaricato il figlio del casting. «C’erano ragazze bellissime, però anch’io al tempo ero piuttosto carina. L’italiano imparato a scuola mi servì perché, quando arrivò il mio turno, sentii De Laurentiis dire al figlio: “Ma chi mi hai portato? È brutta!”. Mi alzai e gli dissi – allora il mio italiano era buono, ora purtroppo non sarei più in grado – “mi dispiace di averla delusa”. De Laurentiis non se l’aspettava, fu come se gli avessi sparato un colpo di pistola».
Ha recitato in 50 film – praticamente è stata tutte le donne del mondo – ha ricevuto tre Oscar (e 18 nomination), ha doppiato, prestato la voce per audio libri. Da giovane è stata fidanzata con l’attore John Cazale – uomo di grandissima sensibilità e cultura – formidabile interprete di Fredo Corleone nel Padrino 1 e 2. Diagnosticato di un tumore ai polmoni, Cazale non fece in tempo a vedere la fine de Il cacciatore, per cui era stato scritturato con Meryl Streep, De Niro e Christopher Walken, ma ottenne, per intervento dei colleghi, di poter finire le riprese e di avere dalla produzione un’assicurazione malattia. (Ho cercato di sapere di più, ma Meryl Streep mi ha risposto con un gesto dalle mano e un sospiro: «quello fu un tempo straordinario»). Meryl Streep è nota per la totale immedesimazione con i personaggi. Per La scelta di Sophie studiò cinque mesi il polacco e imparò a suonare il violino; padroneggia ogni inflessione regionale americana, come padroneggia gli insegnamenti scenici del teatro shakesperiano. Sostenitrice e finanziatrice del partito democratico e di Obama, promuove progetti per l’istruzione femminile e a questi ha, per esempio, devoluto i suoi guadagni per Il diavolo veste Prada. Non parla spesso di politica, ma ogni tanto si permette qualche staffilata. Non è religiosa.
Lei si identifica con i suoi personaggi?
«Direi di sì. Mi piace esplorarli, e alla fine resta sempre qualche connessione con loro, una simpatia.
Le è successo anche con Margaret Thatcher?
(Questa volta non ride) «Sì, anche con lei. Non sono stata d’accordo con la sua politica – giocavo nell’altra squadra – ma ho provato simpatia per lei, per l’eterna tragedia in cui si è coinvolti. Il film la mostra vecchia, una persona arrivata in cima e poi emarginata; questo me la rende interessante e anche affine.
Pochi giorni fa è andata su tutti i giornali perché ha accusato Walt Disney di essere maschilista, razzista e antisemita…
«Oh, come hanno esagerato! Stavamo premiando Emma Thompson e nel mio intervento ho citato una lettera spedita dalla Walt Disney Production tanti anni fa, in cui si diceva che nessuna donna avrebbe potuto far parte del processo di formazione di un cartone animato. Era vero! Quelli erano i tempi. E come la pensasse Walt Disney, tutti lo sanno. La verità è che tutti sanno tutto e ogni tanto fingono di scandalizzarsi. Ma forse il problema è più profondo. Bisogna rifletterci. Disney non era una buona persona, però ha regalato gioia al mondo. Ezra Pound regalò gioia con la sua poesia, ed era pazzo, ed era nazista Mozart, chi era? Forse un pazzo anche lui».
Alla fine del breve colloquio, la signora Meryl Streep mi ha comunicato alcune verità. Una è che è il teatro è studio, fatica, ma lì c’è la sua vita, l’ensemble. La seconda è che sente tutti i suoi ruoli come l’essenza della condizione femminile, della cui sofferenza vuole essere l’esploratrice. La terza è che il talento non è acqua. E così, improvvisamente, la tranquilla signora, mentre ti sta parlando dei grandi pranzi dove la famiglia si ritrova, improvvisamente si alza in piedi, cambia la voce, prende un registro da baritono popolare e ti dà un saggio della recitazione per cui è famosa. È diventata quello zio, che stava sempre zitto, ma che ora batte con la forchetta sul bicchiere: «E adesso, un minuto di attenzione! Ho qualcosa da dirvi, ma non è quello che vi aspettavate…». E tutti sanno che è qualcosa che farà male. Che la festa è finita. Che parlerà di politica, che ti attaccherà. Ma anche che il pranzo di famiglia è il più grande teatro della vita. Oltre a essere il migliore set cinematografico.
Per il resto, Meryl Streep si batte perché a Washington venga fondato un grande museo della storia delle donne in America.