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 2014  gennaio 24 Venerdì calendario

IN GIAPPONE DOVE MORIRE DI LAVORO È UNA VERGOGNA SOCIALE


Tokyo. Karoshi è una parola che terrorizza i giapponesi. Se la si dice a voce alta, si viene zittiti. Un po’ come da noi cancro, che viene spesso sostituita da una brutta malattia. Karoshi vuol dire «morte da troppo lavoro». È un vocabolo apparso per la prima volta nei dati statistici del Ministero della salute, del lavoro e del welfare (Mhlw) giapponese nel 1987. Dal 2002 è un lemma dell’Oxford English Dictionary. I casi accertati di karoshi sono aumentati vertiginosamente a partire dagli anni 80 e 90, quando il Paese del sol levante fu messo in ginocchio dalla bubble economy. Da allora, il numero delle morti per troppo lavoro è sempre aumentato. Attualmente sono circa 9.000 all’anno. Le industrie in difficoltà licenziano personale ma triplicano, quadruplicano il carico di lavoro dei dipendenti rimasti, cercando di mantenere alto il livello produttivo anche a ranghi ridotti all’osso.
In Giappone è considerato standard un contratto di lavoro di 60 ore settimanali, oltre ad ore di straordinario senza limite: basta l’assenso del lavoratore. E se non c’è, arriva immancabilmente l’inoppugnabile licenziamento. Così stabilisce la Corte Suprema. Recentemente, la Corte ha risposto picche alla richiesta di un’organizzazione sindacale di rendere pubblici i nomi delle ditte in cui si verificavano decessi sul lavoro classificabili come karoshi. «Si danneggerebbe la reputazione della ditta», è stata la lapidaria, inappellabile sentenza. Per capire la mentalità della Corte Suprema in fatto di giuslavoro sarà utile ricordare quanto è successo ad un dipendente della Hitachi: a 15 minuti dal termine del suo lungo turno giornaliero, riceve l’ordine di fare cinque ore di straordinario. Osa dirsi non disponibile, avendo ormai preso impegni improrogabili. Ma il giorno seguente si presenta al lavoro all’alba e gli dà sotto senza soste sino a tarda sera per completare oltre al proprio lavoro ordinario anche quello straordinario che gli era stato chiesto il giorno precedente. Ora ha la coscienza a posto: ha dimostrato il suo totale attaccamento alla ditta. Ma si sbaglia. La ditta disapprova il suo comportamento e gli chiede di «cambiare modo di pensare» e riconoscere il suo torto. Il lavoratore si rifiuta di ammettere di aver agito scorrettamente, ma paga il delitto di lesa maestà con la perdita del lavoro. Inutile il ricorso alla Corte Suprema che non trova nulla da eccepire al licenziamento del lavoratore ribelle. Ci sono stati karoshi di operai che avevano fatto anche 300 ore al mese di straordinario (10 ore al giorno oltre il turno regolare di 8 ore). Se si calcola il tempo del viaggio casalavoro e ritorno – minimo un’ora – rimangono appena quattro ore per riprendere fiato in famiglia (o ciò che rimane di essa). Non si pensi però ad un lavoratore sfrenatamente avido di guadagni. Infatti l’enorme montagna di ore di straordinario non viene né registrata, né retribuita. Una buona parte di queste ore sono graziosamente definite furoshiki (nascoste nel fagottino della spesa), perché i dipendenti le fanno a casa dove, con il tacito consenso dei manager, continuano il lavoro che non sono riusciti a terminare negli orari regolari in ufficio o in fabbrica. In ogni caso, comunque e ovunque siano fatte, a nessuno salta in mente di poterne esigere il pagamento: sono il pegno di lealtà verso la ditta. Secondo l’Mhlw, sono da classificare come karoshi le morti improvvise di dipendenti che hanno lavorato una media di 65 o più ore a settimana per oltre quattro settimane consecutive (senza giorni di riposo), o una media di 60 ore settimanali per più di 8 settimane consecutive. Ma l’organizzazione sindacale mondiale Labor Force Survey, ritiene che una settimana tipica di un lavoratore giapponese, sia esso operaio o quadro dirigente, va da 70 a 90 ore. Quindi la pur terrificante definizione ministeriale di karoshi è largamente sorpassata dalla realtà accertata dalla Labor Force Survey.
Le autorità governative e le ditte fanno fronte comune nel limitare al massimo la classificazione di karoshi per morti improvvise di lavoratori, anche di fronte a casi assolutamente palesi. L’Ispettorato del lavoro ha negato la definizione alla morte per infarto di un camionista di 42 anni che aveva totalizzato circa 6.000 ore annue (circa 17 ore giornaliere) senza un giorno di riposo negli ultimi sette anni di lavoro. Con questi dati agghiaccianti è facile comprendere come dal karoshi si scivoli fatalmente nel Karojisatsu, suicidio per il troppo lavoro: una tendenza che si impenna sempre più, parallelamente a quella del karoshi. Recenti ricerche parlano di diverse migliaia di casi accertati ogni anno. Causa ed effetto sono identici, ma nel Karojisatzu l’effetto viene lievemente anticipato: un harakiri post-moderno.
Perché i Giapponesi si lasciano stritolare a morte dagli ingranaggi del loro tanto invidiato sistema produttivo? Come reagiscono le forze sindacali? Secondo un approfondito studio condotto congiuntamente dal prof. Katsuo Nishiyama docente di medicina preventiva dell’università giapponese di Otsu e dal prof. Jeffrey Johnson, docente di scienze comportamentali dell’università americana Johns Hopkins, le grandi industrie giapponesi «hanno organizzato molte attività formali e informali per inculcare nei lavoratori il concetto che dipendenti e padroni condividono lo stesso destino», erodendo nelle organizzazioni sindacali ogni potere contrattuale e riducendole a «meri strumenti per il controllo dei lavoratori». Un’ inchiesta governativa ha rivelato che il 90 per cento dei lavoratori intervistati non capisce la necessità di cercare un equilibrio tra vita privata e lavoro: 4 lavoratori su 5 si dicono sempre pronti a cancellare qualsiasi impegno della loro vita privata se il capo chiede loro di rimanere a lavorare in straordinario.
L’aumento di rilievo mediatico del fenomeno sociale e le prime battaglie sindacali vinte dalle famiglie delle vittime dei karoshi sono state un campanello d’allarme per le grandi corporazioni che hanno deciso di prendere iniziative per smarcarsi dal fenomeno karoshi.
La banca Mitsubishi ha da poco inaugurato uno schema che permette ai lavoratori di lasciare il lavoro con un massimo di tre ore di anticipo per andare a casa a prendersi cura dei figli piccoli o dei genitori anziani: significativamente, solo 34 dei settemila dipendenti dell’istituto hanno usufruito di questa possibilità.
Ipocritamente (come il nostro «il fumo uccide» sui pacchetti di sigarette del monopolio), alcune ditte, dalle sette di sera, lanciano ogni ora un messaggio con gli altoparlanti in cui si ricorda ai dipendenti che troppo straordinario fa male alla salute.
Il karoshi è ormai talmente radicato nella realtà sociale giapponese che nel fiorente mercato dei video-giochi va a ruba Super karoshi, lanciato con lo slogan: «l’unica cosa che devi fare per vincere è uccidere te stesso».
Il karoshi è figlio deforme della lean production (produzione snella) e della «qualità totale» giapponesi, che tanto filo da torcere hanno dato e dànno ai concorrenti occidentali. Ma quando ci estasiamo davanti alla perfezione di un prodotto dell’industria giapponese, non dimentichiamo che assieme all’innegabile valentia e all’estremo impegno dei lavoratori, esso può celare abissi di dolore e sacrificio: una riflessione che può aiutarci ad apprezzare la nostra sciatta felicità.