Elena Martelli, Il Venerdì 24/1/2014, 24 gennaio 2014
NIENTE SESSO, SIAMO SERIE
Roma. «Invece di scrivere i Karamazov, scrivi la vita di Lucio Dalla: la fiction biografica supplisce alla mancanza d’idee». Per questo vediamo tanti biopic in tv, dice un addetto ai livori, liquidando tante delle fiction andate in onda di recente con un laconico: «Tutta roba del precedente direttore di RaiFiction, Fabrizio Del Noce, che aveva il pallino dei biopic». Non che il nuovo capo Tinny Andreatta le abbia abolite (sono in arrivo Don Diana, Fallaci e Ambrosoli) ma è tuttavia intenzionata a produrne di meno, in favore della lunga serialità.
Il fatto che gli sceneggiatori Ivan Cotroneo, Monica Rametta e Stefano Bises siano al lavoro su un nuovo soggetto, È arrivata la felicità, è una buona notizia. «Noi di biopic tendiamo a non farne» dicono Rametta e Cotroneo. «E quando mi è capitato di scrivere Moana me l’hanno cassata, avevamo in mente un ritratto allegro, vitale, mentre passò una biografia cupa» aggiunge Rametta.
Le vite che continuiamo a vedere in tv sono spesso, per dirla con Carlo Freccero «come un sussidiario scolastico di quinta elementare, molte volte pargoleggiante». «Quella su Meroni mi è sembrata la peggiore» fa notare. «Ne hanno fatto un raccontino letterale, senza dar rilievo al suo essere vicino al clima del ’68».
Tutta colpa della fiction biografica concepita a misura di eroe positivo che deve dare il buon esempio. Se parti con questo intento, è logico che poi ti ritrovi dritto nel terreno insidioso dell’agiografia (e a due passi dal podio dei Razzie Awards, gli oscar del peggio). Perché se i difetti li minimizzi, se nessuno tradisce mai, e nessuno è avaro, tutti – che siano medici, sindacalisti, politici – diventano salvatori della Patria. Con il risultato di compromettere la verosimiglianza del racconto. «Il livello di falsificazione è altissimo», dice un produttore. Facile accorgersene quando vedi Marco Pantani nel film tv di qualche anno fa, dire «Ce l’hai quella sostanza? » invece di «Ce l’hai la coca?».
Poi, certo, ne abbiamo viste alcune di tono più crudo, coraggioso. Come quella su Basaglia, La città dei matti, o quella su Rino Gaetano. Entrambe le ha dirette Marco Turco, il quale ricorda però quanto su Basaglia la Rai non fosse per niente tranquilla. «Dall’azienda non ho mai avuto censure. Non accetterei pressioni su cast o sceneggiatura. Se succedesse, me ne andrei. C’è la nostra responsabilità in quel che va in onda».
Già la scelta di quei personaggi era controcorrente, rispetto alle tipiche vite esemplari che sceglie la fiction generalista. Racconti funzionali, spiega Freccero, a una tv «che deve rassicurare e creare una consuetudine. Quel che colpisce è che lo schema non è cambiato. Son tutti allievi di Bernabei, come Jacchia che ha prodotto Gli anni spezzati» la fiction sull’Italia dei Settanta. «Per carità riconosco a Bernabei tutti i suoi meriti, chapeau. Ma nonostante i tempi siano cambiati, quel modello è ancora in auge».
Non pensiate però che gli sceneggiatori italiani aderiscano a questo schema senza mal di pancia. Ad esempio davanti a continue richieste di flashback per rendere più comprensibile il racconto. «Metti i flashback! Ogni volta te lo chiedono. E io, sempre, dico no» racconta Marco Turco. Fondamentale, forse regola numero uno, è la presenza di una grande storia d’amore. Ma nessuno, per carità, che venga fuori troppo farfallone, cosa nota a proposito di Modugno. Appena entri nel privato di queste vite, apriti cielo. «Dai figli ai bisnipoti, i parenti ti tormentano» dice uno del mestiere. E la Rai non può fare biografie all’insaputa dei familiari. Perché un conto è il diritto di cronaca, relativo ai fatti pubblici, e un altro sono i fatti privati, tutelati ti dai parenti, guardiani dell’immagine e della memoria. In sede contrattuale, i familiari esigono spesso di avere l’ultima parola prima della messa in onda. Se va male ti bloccano, come è capitato per la fiction su Tiberio Mitri dove, secondo un familiare, la moglie del campione sembrava risultare di troppo facili costumi. «Quando abbiamo scritto la fiction su Basaglia» racconta Alessandro Sermoneta (sceneggiatore de La Piovra e de I ragazzi di via Panisperna di Amelio), abbiamo deciso di non raccontare il personaggio frontalmente, ma di farne un ritratto corale incentrato sui pazienti. Nonostante questo, le liti con i suoi collaboratori sono state furibonde. La fiction sul caso Tortora non ho accettato di farla. Non mi piaceva il clima che si era creato». Sulle biografie, dice un ex dirigente Rai, «devi attenerti al codice etico dell’azienda: non essere urticante, né con il linguaggio né con i temi. Un vero disastro per le storie, che più sono contrastate meglio è».
Ma non si tratta di censura tout court. È piuttosto il risultato di una mediazione «tra l’intreccio drammaturgico e le verità biografiche. Si tende a mostrare un ritratto in cui i familiari dell’eroe si riconoscano» spiega Monica Zapelli che ha appena scritto Non è mai troppo tardi, sul maestro Manzi. Al contrario di altri, lei mostra un certo ottimismo: «Quando affronti un personaggio come Manzi, hai pochi lati oscuri da raccontare. Sì, ha avuto due matrimoni. Ma significativo per noi era il personaggio di un irriducibile contro il sistema scolastico dell’epoca. Detto questo, spesso la zona d’ombra non la esploriamo per paura di allontanare il pubblico. Dobbiamo maturare nel linguaggio. Vedrà: il problema presto verrà superato».
Intanto si continua a edulcorare. La bio su Walter Chiari diventa un racconto nel quale cocaina e impotenza vengono trattate di sguincio. «Soffriva di eiaculazione precoce. Sorvolare su una scena esemplificativa in tal senso fu una scelta del regista Enzo Monteleoni con cui non fui d’accordo. Lui sosteneva che fosse di cattivo gusto. Per me, invece, illuminava un suo aspetto. Non ho mai avuto censure ma forse mi autocensuro da solo, tenendo conto della committenza, del pubblico di riferimento. E scelgo. Quando Luca Barbareschi mi propose un film su Cesare Battisti, non mi piaceva l’ottica di destra e rifiutai», racconta lo sceneggiatore Luca Rossi. Aggiunge che c’è un’altra regola non scritta: «Quella di non iniziare con scene notturne, sennò perdi pubblico». Il buio fa scappare. Confonde. Sarà anche per questo che la fiction su Calabresi non è andata tanto bene? «Di agiografie non ne scriviamo » dice Sandro Petraglia, autore di biopic su Don Milani, Perlasca, Modugno... «Se racconti, come è capitato a me, degli irregolari, sei facilitato. Me ne propongono in continuazione, anche su Lucio Dalla che però non saprei come fare».
«Nel caso di Basaglia abbiamo scelto di non raccontare che aveva un amante. Non volevamo far passare il messaggio che lui si spostava da Gorizia a Trieste per quel motivo. Metterlo avrebbe significato connotare quel passaggio in modo sbagliato», spiega la sceneggiatrice Elena Bucaccio. Non si censura, al limite ci si autocensura o saltano i progetti, come il remake del film antirazzista Il Buio oltre la siepe che non piacendo alla Lega, è stato accantonato, racconta Alessandro Sermoneta. Che adesso sta scrivendo la storia di Altiero Spinelli per la Rai.
Ma non crediate che il problema non esista anche in casa Mediaset. «Lì però la censura però non è di tipo etico ma commerciale» precisa Sermoneta. Gli è capitato di scrivere una serie sul Noe, il Nucleo ecologico dei Carabinieri: «Ma è stata bloccata dall’ufficio marketing, un’entità kafkiana». Parlare di mozzarelle prodotte nell’avvelenata Terra dei fuochi mette ansia. Certo, anche a Mediaset hanno azzardato fiction su personaggi negativi, come il Riina Capo dei capi. Ma, in Italia, appena tocchi il Male ti accusano di «umanizzare la figura negativa, di mitizzarla» commenta Stefano Bises, uno degli sceneggiatori. «L’agiografia parte dalla convinzione che il pubblico non abbia strumenti per apprezzare storie e personaggi più complessi. E questo non riguarda solo le biografie. Mortifichiamo le nostre capacità sull’altare di un’idea di pubblico sonnolento. E così lo abbiamo un po’ diseducato».
Non solo. «Avere solo due canali generalisti che chiedono di essere semplici e popolari è la nostra sciagura» dice Petraglia. «Cerchiamo di non essere banali. Ma non siamo negli Usa dove c’è un grande mercato». E dove tanta tv di nicchia sforna le serie più belle. In Italia di nicchia abbiamo solo Sky che ancora investe poco. «E ogni tanto copia male le generaliste» aggiunge Freccero. «Se mi chiedessero di fare Romanzo Criminale in Rai» spiega Petraglia, «non lo farei perché non potrei usare un certo linguaggio e avrei le mani legate. Alla fine sa cosa sembra? Che qui siamo stupidi e in America tutti geni. Ora, là ci sono eccellenti figure da tutti i punti di vista ma qui abbiamo un sistema bloccato. Già se la Rai producesse su tutte e tre le reti, come un tempo, il prodotto si diversificherebbe per tipo di pubblico. Questo sistema bloccato rende, tutti noi scrittori, un po’ infelici e invidiosi non tanto dei colleghi europei ma di quelli Usa e inglesi».