Andrea Monti, Linkiesta 21/1/2014, 21 gennaio 2014
IL LATO B DI PRATO: IDENTIKIT DEGLI ITALIANI SUPERSTITI
Quasi duemila industrie tessili, oltre 700 imprese di confezione. Sono i numeri del distretto italiano di Prato: quello che ormai pare diventato il lato B del settore, almeno nel racconto mediatico. Il lato A sono le aziende cinesi, al centro dell’attenzione prima per il loro aumento vertiginoso e poi per l’incendio che a dicembre ha ucciso sette lavoratori. L’altra faccia della medaglia sono le società italiane: in questi anni hanno subìto un forte ridimensionamento, ma provano a resistere e rilanciarsi. Cerchiamo di capire come.
La realtà pratese si divide in due. Da una parte le industrie tessili, dimezzate tra 2001 e 2013. Dall’altra le imprese di confezione, che invece sono raddoppiate. Il primo mondo parla in gran parte la nostra lingua; il secondo è sempre più cinese. Nel 2012 le industrie tessili gestite da italiani erano circa 1.950, l’86% del totale. Quelle di confezione erano circa 700, poco meno del 20 per cento. Sommando i due settori, i nostri connazionali hanno in mano circa il 43% delle aziende. Dati che confermano il boom orientale, ma anche l’esistenza di un altro universo: quello dell’imprenditoria tricolore, erede della tradizione tessile pratese.
«Negli ultimi dieci anni c’è stata una forte contrazione delle aziende di confezioni italiane – dice Luca Giusti, presidente della Camera di Commercio. – Parallelamente è esplosa la proliferazione di quelle cinesi, mentre i lavoratori tessili diminuivano di oltre il 40 per cento». Un calo strettamente legato a quello del fatturato: tra 2001 e 2012 le imprese di questo ramo lo hanno visto scendere di oltre un terzo (dati dell’ufficio studi Confindustria).
«A livello internazionale – spiega Giusti - i mercati sono stati invasi da prodotti cinesi, sostenuti da aiuti di Stato. Chi ha risposto puntando sulla qualità si è scontrato con la recessione mondiale, che ha fatto crescere la richiesta di merce a basso costo».
Il presidente collega la chiusura di molte società italiane anche a loro errori di valutazione. «Si è pensato che il mondo fosse ancora statico, o con tempi di cambiamento più lunghi. Oggi le prospettive di mercato variano da un mese all’altro. Forse ci siamo illusi di essere ancora gli unici capaci di produrre in un certo modo. Bisognava guardare oltreconfine, capire che il nostro concorrente non è più la fabbrica della strada accanto, ma quella che lavora in Cina, India, Brasile».
Che strategie ha adottato chi è riuscito a resistere? Andrea Cavicchi, presidente dell’Unione Industriale Pratese, traccia l’identikit dei sopravvissuti. «Aziende che hanno re-investito, cambiato i macchinari, lavorato sull’innovazione. Oggi chi è rimasto in piedi ha una rete commerciale organizzata e molto impegnata con l’estero». Cavicchi crede nel rilancio delle società italiane, ma a patto che investano nella tracciabilità dei prodotti. «Qualcuno potrebbe pensare che tutto il tessile si muove in modo illegale. Invece lo fa solo una parte, quasi sempre nel settore delle confezioni. Dobbiamo far capire come lavoriamo, migliorare la nostra comunicazione». Una campagna per la “moda sostenibile” in cui il capo degli industriali sta provando a coinvolgere anche il governo.
Per il 2014 le previsioni sono cautamente positive. Cavicchi dice di sperare in un «segno più», anche se magari privo di grandi cifre davanti. Il suo collega Giusti parla di «un po’ di ottimismo» con cui oggi si può guardare al futuro. Lui a Roma chiede regole certe: «Servono a ogni imprenditore, ma ancor di più a quelli legati alla moda, che vive di cambiamenti continui». La politica dovrebbe garantire la stabilità delle leggi, se non quella del governo. E non ostacolare la difficile ripresa del tessile italiano di Prato.