Leo Sisti, L’Espresso 24/1/2014, 24 gennaio 2014
LA LUNGA MARCIA VERSO IL PARADISO FISCALE
Uno squarcio sul lato oscuro del potere in Cina, l’intreccio misterioso tra il partito e gli oligarchi sullo sfondo della seconda potenza mondiale. Una rete di relazioni familiari e finanziarie cresciuta nell’ombra, grazie a una ragnatela di sigle offshore. Lì, nei paradisi fiscali dove la riservatezza è una regola d’oro, adesso affluiscono anche i tesori dei ricchi d’Asia. E in un lungo elenco di 20 mila titolari di società create nelle British Virgin Islands, a Samoa e in altri atolli esotici compaiono anche i congiunti dei mandarini del nuovo millennio. C’è Deng Jiagui, cognato dell’attuale presidente Xi Jinping. E ci sono Wen Yunsong e Liu Chunang, rispettivamente, figlio e genero dell’ex premier Wen Jiabao, rimasto in carica fino al 2013. Nomi che guidano una lista di almeno 15 persone tra le più facoltose della Cina e di Hong Kong: membri del partito, top manager di aziende statali coinvolte anche in scandali per corruzione, tutti uniti dalla tentazione dei forzieri caraibici o polinesiani.
A sollevare per la prima volta il velo sugli affari segreti del gigante comunista è l’inchiesta "ChinaLeaks" realizzata da The International Consortium of Investigative Journalists (Icij), l’associazione di giornalismo investigativo con sede a Washington. Un’indagine durata nove mesi, coordinata dal direttore, Gerard Ryle e dalla sua vice, Marina Walker Guevara, culminata nello studio di 2 milioni e mezzo di file. È lo stesso database utilizzato nella scorsa primavera per "OffshoreLeaks", le rivelazioni clamorose sui possessori di offshore e trust in tutti i continenti che hanno innescato un dibattito sull’opacità della finanza mondiale e spinto Stati Uniti, Inghilterra e Australia ad approvare regole più dure contro i network dell’evasione fiscale.
L’analisi dei documenti sui cittadini cinesi è stata molto più difficile, con la necessità di riscontrare le identità scremando le omonimie. Ma la ricerca è stata completata grazie alla collaborazione tra 40 testate: dal "Guardian" a "Le Monde", da "El País" alla "Süddeutsche Zeitung" di Monaco, dal giapponese "Asahi Shinbun" al "South China Morning Post" di Hong Kong e, per l’Italia, "l’Espresso". Fondamentale il contributo di reporter della Cina continentale, i cui nomi non saranno mai divulgati: si teme che possano essere oggetto di ritorsioni. Una pratica collaudata. Basta ricordare che persino il "New York Times", dopo aver presentato nell’autunno del 2012 un lungo servizio sulle fortune accumulate dai parenti dell’allora primo ministro Wen Jiabao, ha subìto attacchi di hacker cinesi.
La lunga marcia dei magnati orientali si è inoltrata negli stessi arcipelaghi dove da decenni si accumulano i fondi europei e statunitensi. Due sono le centrali che fabbricano trust, società offshore e conti bancari: si chiamano Portcullis TrustNet e Commonwealth Trust Limited, uno a Singapore e l’altro nelle British Virgin Islands. Sigle che vengono manovrate da advisor di alto lignaggio. Ad esempio tramite Portcullis la Pricewaterhouse Coopers ha creato 400 offshore per clienti della Cina continentale, Hong Kong e Taiwan. L’Ubs elvetica l’ha battuta, costruendo ben mille corporation. È la grande muraglia che nasconde le ricchezze reali dell’ultima superpotenza. «Se ci fosse una trasparenza effettiva, allora il popolo cinese avrebbe la percezione di quanto il sistema è degradato e quanti capitali sono stati ammassati da funzionari governativi con mezzi illeciti», chiosa Minxin Pei, politologo del Claremont Mc Kenna College in California ed editorialista de "l’Espresso".
Dal dossier di Icij emerge un quadro completo dei business di Pechino. C’è di tutto: petrolio, industrie minerarie, pannelli solari, armi. Rispetto ai colleghi delle democrazie occidentali, i dirigenti cinesi giocano sul sicuro. Infatti , si legge nel rapporto Icij, «non sono tenuti a svelare pubblicamente l’entità delle loro proprietà», con la conseguenza che «i cittadini sono rimasti in larga misura all’oscuro per quanto riguarda la consistenza di un’economia parallela che consente ai potenti e a chi è ben ammanigliato di evitare di pagare le tasse. Secondo alcune stime tra mille e 4 mila miliardi di dollari, di cui si sono perse le tracce, hanno lasciato il paese dal 2000». È una situazione paradossale. Al punto che secondo Minxin Pei, la ricchezza offshore di questi vip «può non essere strettamente illegale», anche se è legata «a conflitti di interessi e a un uso occulto dei poteri del governo».
Prendiamo il caso di Deng Jiagui. Marito della sorella maggiore del presidente Xi Jinping, Deng è oggi un multimiliardario, con investimenti nell’edilizia e nei metalli pregiati per la produzione di cellulari. Alle attività in patria si aggiungono quelle poco chiare nei Caraibi, dove possiede il 50 per cento della Excellence Effort Property Development, nata nelle British Virgin Islands. E di chi è la quota residua? Di un’altra offshore, sempre in quelle isole dorate, che fa capo a Li Wa e Li Xiaoping: due tycoon, distintisi per essersi aggiudicati un complesso commerciale a Shenzen da 2 miliardi di dollari.
Secondo i file di Icij anche Wen Yunsong, figlio dell’ex premier Wen Jiabao, ha interessi nelle British Virgin Islands. Qui, nel 2006, ha messo in piedi la Trend Gold Consultants, con l’aiuto discreto del Credit Suisse, ufficio di Hong Kong. Negli atti è indicato un solo amministratore e un solo azionista, cioè Wen medesimo. Non si capisce come sia stata usata la società, chiusa nel 2008. Il rampollo dell’ex primo ministro ha studiato negli Stati Uniti, è diventato esperto di "venture capitalism" (capitale di rischio per nuove imprese hi tech), per poi fondare in Cina una società di "private equity", fino a quando nel 2012 è diventato presidente della China’s Satellite Communications, leader delle telecomunicazioni in Asia, di proprietà statale.
Dubbi circondano pure Wen Ruchun, l’altra figlia di Wen Jiabao. Conosciuta anche come Lily Chang, è incappata in uno scandalo citato dal "New York Times" per una consulenza di 1,8 milioni di dollari pagati dalla Jp Morgan Chase a una sua società, la Fullmark Consultants. Le autorità di Borsa statunitensi si sono chieste se tanta generosità non fosse in qualche modo legata al tentativo della banca di "aumentare la sua influenza in Cina". I giornalisti di Icij hanno fatto nuovi approfondimenti, scoprendo che il marito di Lily Chang, Liu Chunhang, ex manager di Morgan Stanley, è l’anima della Fullmark Consultants, nata nel 2004 nelle solite isole Vergini: cioè, "director", o amministratore, e azionista fino al 2006, proprio quando «è stato assunto da un’agenzia governativa che vigila sul mercato azionario cinese». Dietro alla Fullmark Consultants c’è l’ombra della Ubs. Alla richiesta di chiarimenti, i banchieri di Zurigo hanno replicato che quando si tratta di clienti «politicamente sensibili», le procedure sono «molto rigide».
Wen Jiabao non era ignaro delle attività parallele dei suoi congiunti. Alcuni cablo dall’ambasciata americana di Pechino, resi pubblici da WikiLeaks di Julian Assange, rivelano come nel 2007 l’allora premier fosse «nauseato a causa dell’attività della sua famiglia», anche se, si osserva, «i parenti di Wen non prendevano tangenti, ma erano piuttosto inclini a ricevere onorari esorbitanti per consulenze». Il segno della modernizzazione del malcostume anche in Cina.
Ma chi sono gli altri protagonisti del "ChinaLeaks"? Spicca Fu Liang, figlio di Peng Zhen, figura storica del partito comunista, tra i promotori della rivoluzione culturale degli anni ’60 insieme a Mao Ze Dong, poi caduto in disgrazia e infine riabilitato da Deng Xiao Ping. Con il quale farà parte del gruppo degli "otto anziani", autori dell’apertura verso il libero mercato. Liang è stato uno dei primi a sfruttare il nuovo corso, dando vita, tra il ’97 e il 2000, a cinque società offshore nelle British Virgin Islands e ricorrendo alla South Port Development per comperare un hotel di lusso nelle Filippine.
L’ufficio Ubs di Hong Kong è instancabile nel supportare le iniziative degli oligarchi orientali. C’è la sua opera dietro lo sbarco caraibico della donna più ricca del Paese, Yang Huiyan, patrimonio di 8,3 miliardi di dollari, ereditato dal padre, re dell’immobiliare che ha cambiato il volto delle metropoli cinesi. Anche lei dispone di una offshore, venuta alla luce nel 2006 nelle Isole Vergini. Si chiama Joy House Enterprise. A cosa serviva questa Casa della Gioia? La signora Yang non ha risposto.
La banca svizzera ha fornito le chiavi dei paradisi offshore a molti miliardari orientali. Si è rivolto agli uffici elvetici Ma Huateng, l’uomo da 10 miliardi di dollari che svetta alla posizione numero cinque tra i cinesi inclusi nelle classifiche di "Forbes" e ha messo in piedi un impero nei nuovi media, inclusa la chat on line più amata in patria. Lo stesso canale ha percorso Zhang Xin, con beni valutati 3,6 miliardi di dollari e un appartamento a Manhattan costato 26 milioni di dollari: moltissimi grattacieli di Pechino sono opera della sua società Soho China, costituita nel 2007.
La corruzione ha radici antiche in Cina, che nemmeno le retate di massa riescono a debellare: lo scorso anno sono stati incriminati 182 mila dipendenti pubblici e il presidente Hi Jinping ha promesso di «tagliare tutte le mani sporche». Che sempre più spesso seppelliscono le mazzette nelle isole dei Caraibi. Zhang Shuguang, ex alto dirigente delle ferrovie, è stato accusato di aver trasferito 2,8 miliardi di dollari su conti offshore: lo scorso settembre si è dichiarato colpevole. Per appropriazione indebita e corruzione sono finiti sotto processo anche Ma Zehua e Song Jun, presidente e manager del Cosco Group, colosso delle spedizioni portuali controllato dallo Stato. E anche al centro di questo procedimento c’è una società delle British Virgin Islands. Il primato però spetta a Huang Guangyu, l’imperatore dei prodotti elettronici di consumo. Sua moglie Du Juan ha allestito ben 31 offshore. Il marito nel 2010 è stato condannato a 14 anni di carcere per insider trading, tangenti e aggiotaggio; i giudici hanno congelato i suoi beni. Ma il tesoro di Huang resiste, grazie alla quota del 30 per cento della sua holding, protetta da due compagnie delle Isole Vergini con nomi splendenti: Shining Crown Holdings e Shine Group.