Stefania Rossini, L’Espresso 24/1/2014, 24 gennaio 2014
DEMOCRATICO CHI?
[Colloquio con Stefano Fassina] –
Ruvido ed esplicito come sempre, appena uscito da una sonora sconfitta politica, Stefano Fassina ne ha beneficiato in visibilità, conquistandosi sul campo il ruolo di leader della sinistra interna al Partito democratico. Lo hanno aiutato sia l’inossidabile fiducia nelle proprie idee, sia il fatto di essere stato a lungo il bersaglio privilegiato delle battute caustiche e demolitorie che Matteo Renzi riserva agli avversari. A cominciare da quel “Fassina chi?” che tre settimane fa lo ha convinto a lasciare il posto di viceministro. E adesso, dopo le dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del Pd, è più che mai lui il portavoce di quella parte di militanti ed elettori che non riesce a mandar giù i metodi e le idee del nuovo segretario. Così, questo “incontro ravvicinato”, programmato da tempo per scoprire che uomo si nasconde dietro una spigolosità tanto esibita, diventa anche uno sfogo politico.
Allora, Fassina, che cosa sta davvero succedendo nel suo partito dopo il trionfo di Renzi?
«Siamo scossi da luci e ombre, da iniziative buone e pessime. Il nuovo segretario ha messo in moto riforme fondamentali per il Paese, ma le accompagna con un’intolleranza inaccettabile verso le posizioni diverse dalla sua. Chi guida il partito non può pretendere soltanto opportunismo, conformismo e servilismo».
Non mi dica che sono queste le doti necessarie per stare nel nuovo corso.
«Purtroppo Renzi mostra disprezzo nei confronti di chiunque lo critichi. È arrivato ad attaccare il presidente del partito non sul merito del suo dissenso, ma irridendolo su scelte del passato. Bene ha fatto Cuperlo a lasciare l’incarico».
E due. Ma è normale che nel Pd ci si continui a dimettere per una battuta?
«Se si riferisce al “Fassina chi?”, quello era un chiaro messaggio politico anche se espresso in modo beffardo. Confermava l’ambiguità del segretario verso il governo Letta: noi lì a faticare e a mettere la faccia sui compromessi, lui da fuori a tirare freccette come se il maggiore partito al governo non fosse il suo. È lo stesso metodo usato con Cuperlo».
Perché allora non votargli palesemente contro, invece di limitarvi all’astensione?
«Per segnalare, appunto, che condividiamo la necessità di cambiare il titolo V della Costituzione e di superare questo bicameralismo, ma non quella di lasciare alle segreterie dei partiti la scelta dei parlamentari. Le tanto evocate primarie non bastano a sanare la violazione della sovranità popolare. Glielo dice uno che a Roma è stato il più votato. E poi le leggi elettorali vanno pensate anche per chi le primarie non le farà mai».
Come Berlusconi, ad esempio, quello che l’ha fatto vergognare quando è entrato nella sede del Pd?
«E me ne vergogno ancora, sicuro di esprimere un sentimento che non è solo mio. Quella mossa ha ridato a Berlusconi centralità, controllo su tutto il centro-destra e nuova immagine nel Paese. Dopo la sentenza della Cassazione e l’uscita dal Senato continuava a guidare il suo partito, ma aveva subito una scissione ed era in difficoltà. Ora ritrova un ruolo fondamentale. Non è un bene per il Paese».
Dica la verità: a questo punto tira vento di scissione.
«Lo escludo categoricamente. Nonostante tutto, continueremo a dare il nostro contributo. Se qualcuno pensa di indurci a una scissione con attacchi continui, ha sbagliato indirizzo. Il Pd è oggi l’unica speranza per far uscire l’Italia dalle secche. E poi io sono troppo innamorato della politica per tirarmi indietro».
Sembra un amore di lungo corso. Ricorda quando è cominciato?
«Tanti anni fa, al primo anno di corso all’università Bocconi».
Che non risulta essere mai stata una fucina di comunisti.
«All’epoca c’era molta effervescenza. Erano gli anni Ottanta, con la Milano da bere dei Craxi e dei Pillitteri, dai quali mi divideva un’istintiva diffidenza. Io mi limitavo a studiare, ma poi un professore di Storia contemporanea mi ha spinto a iscrivermi al Pci».
In che modo?
«Mi ha chiesto se, vista la mia estrazione sociale e culturale, pensavo davvero di restare alla Bocconi. Avevo 19 anni e non sono riuscito a dare una risposta brillante, ma quel giorno ho capito che cosa significano la disuguaglianza e la differenza delle opportunità. Ho cominciato a frequentare le riunioni dei giovani comunisti, ho fatto la politica studentesca, ho tenuto testa al rettore Mario Monti che voleva abolire il mio corso di “Discipline economiche e sociali” e ho vinto. Era scattata la passione della mia vita».
Perché aveva scelto quell’ateneo così elitario?
«Perché era uno dei pochi che dava borse di studio sufficienti a mantenersi. Ho studiato molto per vincerla ogni anno, mentre mi appassionavo alla lettura di quella grande triade che mi ha convinto a fare l’economista: Smith, Ricardo e Marx. Vivevo alla Casa dello studente, così piena di pugliesi e napoletani che io, con il mio accento apparentemente romano, venivo considerato quasi del nord. Soltanto a Roma capiscono subito che sono del basso Lazio».
Già, lei è di Nettuno. Che infanzia ha avuto in quella cittadina sul mare?
«Bella, ordinaria, da ragazzo di provincia anche un po’ coatto. Correvo sulla spiaggia e giocavo a baseball, uno sport che a Nettuno va forte, eredità dello sbarco degli americani. Ho anche vinto due campionati giovanili, ma soltanto perché stavo in una squadra di bravi. Riuscivo meglio negli studi».
La sua era una famiglia comunista?
«I miei genitori votavano Pci ma senza essere militanti. Mio padre era falegname alla Asl e nel tempo libero faceva altri lavoretti, riuscendo a mantenerci decorosamente. Anche mio fratello Giampaolo aveva scelto di fare il falegname. Ma adesso il suo laboratorio a Nettuno è vuoto e gli strumenti sono impolverati perché lui se n’è andato nel 2007, in quindici giorni, portato via da un tumore quando stava per compiere 39 anni. Uno strappo che mi ha cambiato profondamente».
Come?
«Mi ha spinto a reagire esaltando la forza della vita. I miei due figli più piccoli, che oggi hanno sei e tre anni, sono la risposta a quell’irruzione così brutale della morte».
Si ritiene un buon padre? Raccontano che accompagna sempre i bambini a scuola.
«È un compito che mi sono dato. Li sveglio, li lavo, gli preparo il latte e li porto a scuola, cercando di esserci ogni mattina, magari tornando a casa alle quattro di notte. È la mia seconda opportunità e non voglio sprecarla come la prima. Il mio ragazzo più grande, che oggi ha 25 anni, ha avuto un padre troppo giovane e troppo assente». Deve essere anche un buon marito, se è vero che sta con la stessa donna da quasi trent’anni. «Diciamo che sono stato altalenante. Con Rosaria ci siamo conosciuti sui banchi di scuola, ma io me ne sono andato alla Bocconi, mentre lei restava sola a Roma con il bambino. Ero lontano e distratto. Ci siamo sposati molto più tardi, negli Usa, perché era necessario per avere il visto».
Che cosa è andato a fare negli Stati Uniti?
«A lavorare, prima come consulente all’Interamerican Development Bank. Poi al Fondo monetario internazionale con uno stipendio impensabile per uno come me: 100 mila dollari l’anno a tempo indeterminato. Ma quando Bersani mi ha chiamato per collaborare al programma elettorale del 2006, non ho resistito e ho lasciato tutto. Nel frattempo anche mia moglie mi aveva lasciato. Per colpa mia».
Brutta esperienza. Che aveva combinato?
«Non volevo altri bambini, mentre lei li desiderava. Siamo stati separati per alcuni anni, ma quella rottura ha squarciato un velo, mi ha fatto capire quanto lei desse senso a tutta la mia vita».
Com’è la seconda volta con la stessa donna?
«Si sta più attenti, si fanno meno errori. E forse si è anche più innamorati».
Insomma Fassina, lei oggi è un politico affermato, un bravo papà, un marito felice... perché ha sempre quell’aria così corrucciata?
«Non si lasci ingannare dalla fisiognomica. Qualche volta i troppi ammiccamenti nascondono brutti caratteri».
Non le chiedo a chi si riferisce. Ci racconti invece il suo tempo libero: letture, cinema, musica, sport...
«Poco di tutto, me ne manca il tempo. Qualche corsa sulla spiaggia di Nettuno quando vado a trovare i miei genitori, un libro ogni tanto. Però ho una notevole conoscenza di film per bambini. So tutto di Peppa Pig, dei suoi familiari e dei suoi amichetti».
Lei è cattolico?
«No, ma ho una grande ammirazione per la religione. È molto interessante la riflessione che la Chiesa ha portato avanti prima con Ratzinger, ora con Bergoglio».
Dove trova la continuità tra due papi così diversi?
«Nella critica al liberalismo, all’individualismo e al paradigma economico che ha dominato questi anni. L’enciclica “Caritas in veritate” di Ratzinger contiene un’analisi radicale di questi aspetti. Francesco li sta ora affrontando attraverso la dottrina sociale della Chiesa, certamente un pensiero più in sintonia con il mio».
Questi interessi vengono dalla sua convivenza politica con gli ex democristiani del Pd?
«Sì, in questi anni ho avuto la fortuna di lavorare con Emilio Gabaglio, un sindacalista cattolico di grande umanità e cultura. Vado poi spesso a parlare con Franco Marini, qualche volta con Pierre Carniti. Da loro ho imparato a tener conto della persona, che non sempre è centrale nella storia da cui provengo. Infatti oggi non parlo più di lavoratore, ma di persona che lavora. E mi sono persino avventurato in un’elaborazione tutta mia».
Sentiamola.
«Forse sembrerò spericolato, ma ho voluto chiamare “neo-umanesimo laburista” l’incontro tra questa attenzione alla persona e la centralità del lavoro nel filone socialista. Del resto è l’intuizione che ha fatto nascere il Partito democratico».
Dove però adesso è arrivato Renzi.
«Sì, è arrivato Renzi, portando buone innovazioni e aspetti non condivisibili. È una stagione del nostro partito in cui lavoreremo per trovare punti di incontro. Ma è solo una stagione, magari lunga, ma destinata a passare come tutte le altre».
DA NETTUNO A PALAZZO –
1966 Stefano Fassina nasce casualmente a Roma il 17 aprile. Ma la famiglia risiede a Nettuno, cittadina del litorale laziale, dove il padre Gino fa il falegname e la madre Eleana la casalinga. Avrà un fratello minore, Giampaolo, che morirà nel 2007.
1985 I pieni voti alla maturità scientifica gli fanno ottenere una borsa di studio per l’università Bocconi dove si laurea in Discipline economiche e sociali.
1988 Dall’unione con Rosaria, conosciuta sui banchi di scuola, poi maestra elementare, nasce il primo figlio Andrea.
1990-95 Fa i primi passi come consulente economico all’Istat e alla Ragioneria generale dello Stato.
1996-99 Collabora con Vincenzo Visco ministro delle Finanze del primo governo Prodi. Tre anni dopo passa al dipartimento Affari economici della presidenza del Consiglio.
2000-2005 Si trasferisce negli Stati Uniti, dove lavora a tempo pieno al Fondo monetario internazionale
2006-2008 Lavora al ministero dell’Economia, ancora con Vincenzo Visco. Intanto è nata la figlia Cecilia.
2010 È in prima linea nella campagna per Bersani segretario e diventa il responsabile economico del Pd. Nasce il figlio Livio.
2012 Si candida alle primarie a Roma, dove risulta il primo eletto con 12 mila preferenze.
2013 È eletto deputato ed entra come viceministro nel governo Letta, carica da cui si è recentemente dimesso.