Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 24/1/2014, 24 gennaio 2014
Biografia di Fulvio Pierangelini raccontata da lui stesso
I suoi colleghi conducono trasmissioni tv, scrivono libri, cucinano per i politici, insomma sono diventati star. Lui, «il miglior cuoco del mondo» (definizione del Figaro del 27 luglio 2011), ha chiuso il suo ristorante, non dà interviste, non va in tv. Air France Magazine ha scritto: «È il più bravo, ma è un ogre», un orco. In realtà, oltre a essere schivo, Fulvio Pierangelini semplicemente non è mai dove te lo aspetti. Stasera ad esempio è nella sua casa di Roma, un buco dietro l’hotel de Russie di cui è «direttore creativo» (come di altri resort di Rocco Forte sparsi nel mondo), in una cucina con un tavolino per due sole persone, a preparare il piatto che considera il più difficile: gli spaghetti al pomodoro.
La vera storia del Gambero Rosso
«Sulla fine del Gambero Rosso hanno scritto un sacco di sciocchezze. Non è vero che sono scappato con una ballerina russa: se fosse esistita, non sarei qui ai fornelli. Non è vero che mia moglie scese in cantina con il mattarello a distruggere bottiglie da migliaia di euro; mia moglie è una donna intelligente, infatti la cantina se l’è tenuta lei. Il Gambero Rosso è finito perché era finita la magia cominciata più di trent’anni fa, in un locale in riva al mare che non era un ristorante di pesce, in un posto all’apparenza semplicissimo che però aveva tovaglie di lino di Fiandra, che stiravo di persona». Di persona? «Sì, e la sera lavavo i bicchieri e pulivo per terra. Pulire per terra è stato il mio primo lavoro. Davo una mano nel negozio di giocattoli della mia famiglia. Chiesi di provare come venditore. In un giorno vendetti cinquanta bambole di celluloide. Non il cicciobello che sorride e canta; le bambole con gli occhi spiritati, da film dell’orrore». «Sono nato a Roma, in via Teulada 52. Dalle finestre vedevo la Rai, con cui siamo quasi coetanei: sono del ’53. A destra c’era un pollaio con le galline, poi lo tolsero per costruire la casa dove il maestro Manzi faceva “Non è mai troppo tardi”. Avevo l’autografo di Mina, di Celentano, delle Kessler. Eravamo in dieci in un appartamento: nonno, nonna, zii». «Siamo una famiglia di macellai e cantastorie, di verdurieri e pittori. Mio nonno materno morì in manicomio. Mio padre faceva l’ingegnere alla Sirti, per seguirlo finimmo sulla costa toscana, a San Vincenzo. Io studiavo chitarra classica al conservatorio e sognavo di fare l’ambasciatore. Avevo un’immagine settecentesca della diplomazia: feste, ricevimenti, banchetti; tipo Vatel, il film ambientato a Versailles in cui Depardieu si suicida perché non è arrivato il pesce dalla Bretagna. Memore del precedente, la volta in cui andai anch’io a Palazzo Chigi, quando c’era Prodi, preparai la pasta con le sarde scappate: niente pesce, solo uvetta, pinoli, finocchietto».
La «Destra di popolo»
«Mi iscrissi alla scuola di elettronica. Alla fine mi laureai in Scienze politiche, alla Sapienza. I professori erano Rosario Romeo, Augusto Del Noce, Villari, Saitta. E Aldo Moro: diritto e procedura penale. Il giorno in cui lo rapirono ero in facoltà. Presi l’ultimo treno per San Vincenzo: stava per nascere mio figlio, Fulvietto». Fulvietto? «Fulvio junior non si poteva».
«Da ragazzo mi appassionava la destra sociale. Qualcosa più a sinistra della sinistra ufficiale, la destra di popolo: “Né servo né padrone; socializzazione”. Leggevo Evola. Ma anche Flaubert. Non ho mai avuto tessere di partito, non ho mai sopportato i faziosi, i violenti. E poi dovevo lavorare per mantenermi agli studi».
«Nell’estate del 1970 feci il bagnino, a Riva degli Etruschi. Poi sono stato istruttore di vela e capo dei servizi di spiaggia. Nel ’76 volavo su un Rocket, il pilota scese in picchiata per far paura a un peschereccio, non ci schiantammo per miracolo. Da allora non sono più salito su un aereo: una paura che ho superato soltanto adesso. Passai a lavorare in cucina. Lì avvenne l’iniziazione ai cibi, ai sapori, ai profumi». La sua passatina di ceci con gamberi è stata copiata ovunque; la parola stessa, «passatina», è entrata nei menu francesi e americani, a indicare qualcosa di più consistente di una zuppa e meno di uno sformato. «Ma nei giorni di chiusura, per pareggiare i conti del Gambero Rosso, prendevo il treno e andavo in un’azienda alimentare a preparare hamburger di prosciutto e BonRoll di tacchino».
Gli chef-star
«Gli spaghetti al pomodoro sono il piatto più difficile perché le varianti sono infinite. Già solo tagliando il pomodoro a dadini anziché a listarelle cambia tutto. Io non lo taglio: lo accarezzo, lo pelo, lo svuoto, poi lo faccio a brandelli con le mani. Così il pomodoro è pronto a ricevere il profumo del timo, il sentore del basilico, l’effluvio dell’aglio…».
«Ho un buon rapporto con i colleghi. Di Vissani sono amico, anche se ci vediamo poco. Cracco lo stimo, nonostante Masterchef. Bastianich? Bastianich non è un collega, è un ristoratore. Il fatto che io preferisca stare in disparte non significa che non lavori, anzi. Sono stato il regalo del sessantesimo compleanno di Tony Blair: sua moglie mi chiamò a cucinare per lui. Sono diventato un fumetto per recitare nel trailer di Piovono polpette. Ho insegnato estetica e creazione gastronomica all’università di Parma, con il professor Davide Cassi, fisico della materia: ora stiamo preparando una pasta per celiaci. Con Amelia Freer, nutrizionista di Londra, lavoriamo a un progetto di cucina dietetica: una dieta di piacere. Con Fulvietto ho ripreso ad allevare galline. Ho preparato un cd con il fruscio del vento: migliora la qualità delle uova». Tornerà ad avere un suo ristorante? «Mi piacerebbe fare qualcosa di diverso. Un atelier, qui a Roma. Non un posto in cui si prenota e si mangia; una scuola di cucina, dove insegnare, far conoscere la mia storia, gustare le infinite variazioni di un piatto: le capesante con la mortadella, gli scampi crudi con foie-gras e puntarelle. E il piccione con le spezie d’Oriente: un souvenir di un viaggio mai fatto». Lei non è mai stato in Oriente? «Se è per questo non ho mai neppure mangiato un piccione. Solo una volta, cucinando per Ducasse, ho messo il dito nella salsa, per assaggiare». Come mai allora Ducasse ha detto, al Louis XV di Montecarlo, davanti a 300 chef, che il piccione di Pierangelini è il migliore che abbia mai provato? «Una cosa non puoi non farla, se non la sai. Come cantava Jacques Brel: ci vuole talento per essere vecchi senza essere adulti». E forse il nonno di Pierangelini, quello morto in manicomio, non era matto; era un genio, o entrambe le cose.