Eva Cantarella, Corriere della Sera 24/1/2014, 24 gennaio 2014
E I GIURISTI FRANCESI SACRIFICANO IL «BUON PADRE DI FAMIGLIA»
È guerra, in Francia, contro Il «buon padre di famiglia». Il Parlamento francese ha votato un emendamento a un progetto di legge sulle pari opportunità tra generi volto a cancellare questa locuzione «sessista» e «obsoleta». Come ha spiegato Najat Vallaud-Belkacem, ministro socialista delle Pari opportunità, anche il linguaggio giuridico va cambiato, e con esso questa espressione, tuttora presente nel Codice civile francese.
Le reazioni non si sono fatte attendere: la solita «visione ideologica del mondo della sinistra» ha detto l’opposizione, che ha parlato di «totalitarismo linguistico». Così oltralpe. E ora veniamo a noi: anche nel nostro codice civile esiste il «buon padre di famiglia», e nel momento in cui la Francia ne decreta la morte vale la pena fare qualche considerazione sulla sua nascita.
Il «buon padre di famiglia» è una figura astratta nata a Roma. Furono i giuristi romani a individuarla come modello della persona che non vien meno alla diligenza necessaria per adempiere a un impegno assunto. E poiché il diritto romano è l’alfabeto del diritto, come ebbe a dire Rudolf von Jhering, l’espressione, attraverso vicende millenarie, è arrivata sino a noi.
A partire all’incirca dall’anno mille, infatti, il diritto romano ricominciò a essere studiato nelle scuole (in primo luogo quella di Irnerio, a Bologna) e a essere utilizzato nella pratica in molti paesi europei. L’Inghilterra, che non lo recepì, mantenne la sua Common Law. Nacquero, così, le due grandi famiglie dei diritti di origine europea, quella derivata dalla Common Law, e quella dei diritti di tradizione romanistica. E il diritto romano lasciò tracce nella cultura giuridica dei popoli che ne furono segnati, e da questa passò nei Codici civili moderni, a partire da quello francese per arrivare al nostro, dove all’art. 1176 si legge che «nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».
Prescindiamo qui da una più precisa identificazione di questa diligenza e torniamo ai giuristi romani. Per loro la persona che poteva essere individuata come modello di comportamento non poteva essere che un pater familias : allora solo il pater era titolare di diritti privati, nell’ambito della famiglia. I suoi discendenti (figli e nipoti), quale che fosse la loro età, erano sottoposti alla di lui patria potestas fino alla sua morte. La famiglia romana, diciamoci la verità, era un gruppo all’interno del quale si commettevano soprusi e violenze non da poco: il padre poteva sottoporre i discendenti (per non parlare della moglie) a punizioni fisiche, in casi estremi poteva metterli a morte, decideva chi poteva sposarsi e con chi, poteva diseredare i figli senza doverlo motivare… Il padre di famiglia alla romana, insomma, è una figura grazie al cielo scomparsa.
Ben venga dunque qualunque iniziativa volta a sfatare la visione ideologica della sua immagine e di una famiglia romana serena e priva di tensioni: la libertà, il rispetto degli altri e l’armonia non abitavano quella famiglia. Ma detto questo cancellare l’espressione tecnico-giuridica «buon padre di famiglia» è qualcosa che se da un lato può soddisfare la giusta esigenza di un linguaggio meno sessista, dall’altro cancella una lunga storia della quale possiamo e dobbiamo essere fieri: oggi si fatica a ricordarlo, visti gli obbrobri legislativi ai quali abbiamo assistito e assistiamo, ma la nostra è «la patria del diritto», come un tempo ci compiacevamo di dire.
Io credo che ci siano ancora tante cose da fare per affermare la nostra dignità femminile: eviterei di farlo, però, cancellando un’espressione nata grazie a una scienza «nostra», che ha influenzato la cultura europea e non solo, e può incoraggiare a ricordare un pezzo importante del nostro passato: scoprendo così, ad esempio, come sia sbagliato idealizzare e rimpiangere la famiglia tradizionale e i suoi valori. Mettendo le due esigenze sul piatto, per me questo scende dalla parte della storia.