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 2014  gennaio 23 Giovedì calendario

[Una delle più farsesche "narrazioni tossiche" degli ultimi tempi è senz’altro quella dei "due Marò" accusati di duplice omicidio in India

[Una delle più farsesche "narrazioni tossiche" degli ultimi tempi è senz’altro quella dei "due Marò" accusati di duplice omicidio in India. Fin dall’inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti. Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico. A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C’è da chiedersi perché quasi nessun altro l’abbia fatto: in fondo, con Internet, non c’è nemmeno bisogno di vivere in India! Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore...), ma erano e sono celebrate come... eroi nazionali. "Eroi" per aver fatto cosa, esattamente? Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L’articolo che segue - corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate - è il più completo scritto sinora sull’argomento. Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l’impaginazione ottimizzata per la stampa, l’altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo. N.B. Cercate di commentare senza fornire appigli per querele. Se dovete parlar male di un politico, un giornalista, un militare, un presidente di qualcosa, fatelo con intelligenza, grazie. P.S. Grazie a Christian Raimo per la sporcatura romanaccia, cfr. didascalia su casa pau.] - di Matteo Miavaldi Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria. La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali. E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza. In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti. E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi. La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione. Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra». Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi: Ignazio La Russa Ignazio La Russa 1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati. Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia. 2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni. Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi. Margherita Boniver Margherita Boniver Qualche esempio di strumentalizzazione? Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale. Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!). L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane. LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA” La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua». Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione. [ UPDATE 19 GENNAIO: il capoverso qui sopra è stato molto criticato, ma nella sostanza riassume la posizione dell’India sulla «zona contigua», posizione ribadita ieri dalla Corte suprema di New Delhi: «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Quest’aspetto verrà approfondito nel prossimo post di Miavaldi. Anche in quest’occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l’India l’incidente "non è avvenuto in acque territoriali", senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l’incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciò non è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella "zona contigua", sulla quale l’India - intesa come nazione tutta - rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale. ] I fasci giocherellano con l’idea di essere in guerra con l’India. Poi toccherà alla Kamchatka. Sti fasci de casa pau giocano a ffà ’a guera coll’india. Più tardi aggredischeno la Kamciacca. - Seh, poi finisce che se fanno ’e tre de notte e domattina so’ cazzi, svejasse pe’ andà a scola! Tipo che a forza de ffà sega, qui ce tocca ripete’ a prima media... - Pure quest’anno?! A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica. Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani. Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d. Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane! In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?» Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo. Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie. Luigi Di Stefano, ingegnere ma non proprio[ UPDATE 8 gennaio 2013: Di Stefano in persona è intervenuto nei commenti qui sotto... e mal gliene incolse. Oltre a ulteriori, serissimi dubbi sulla sua "analisi tecnica" (ricapitolati qui), ne sono emersi anche sul suo buffo curriculum, sulla sua laurea (si fa chiamare "ingegnere" ma non risulta lo sia), sui suoi trascorsi e su precedenti, non meno raccogliticce "perizie". Dulcis in fundo: presentato come tecnico super partes, in realtà Di Stefano è un dirigente del partitino neofascista Casapound. Suo figlio Simone è il candidato di Casapound alla presidenza della regione Lazio. Con Casapound, Di Stefano anima un "comitato pro-Marò". Dopo che la discussione/inchiesta ha portato alla luce queste cose, Di Stefano è stato raggiunto dal Fatto quotidiano e ha ammesso di non essere andato molto più in là di una ricerca sul web, di non aver mai avuto contatti diretti con fonti indiane e di aver ricevuto alcuni dati da analizzare da giornalisti italiani suoi amici, omettendo di verificarli alla fonte primaria. Costui si aggirava da anni al centro o alla periferia di inchieste cruciali (Ustica, Ilva etc.), presentato dai media mainstream e dalle destre (fascisti e berluscones) come "esperto", senza che nessuno avesse mai pensato di verificarne i titoli, la reale competenza, i metodi impiegati e chi gli dava copertura politica. Eppure non sarebbe stata un’inchiesta difficile, tant’è che per scoprire certi altarini sono bastati due giorni di discussione seria su un blog. Naturalmente, sia Di Stefano sia i suoi amici di estrema destra, dopo aver accusato il colpo, han cercato di rispondere facendo il free climbing sugli specchi e gridando al complotto internazionale ai loro danni. -- WM ] UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!» Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro. Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony. Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo». I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair. A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che: 1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione. Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati. La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali. A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India. La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale. IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione. Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane. I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile: ’a pizza«I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine. Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio. La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.» Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane. In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio. L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori. Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo». Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori. Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.» Immagine tratta da "Libero" Immagine tratta dal sito di Libero. Il giornale ha toni incazzati, ma i lettori sembrano di buon umore. Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico. Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava: «[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.» La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.» Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.» In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» - è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese. Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che Friselle«i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.» L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese. Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa. PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero. I beduini del Kerala I beduini del Kerala... Fottuti bastardi... Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato. [ Update 5 gennaio 2013: dopo mesi e mesi di propaganda a senso unico e rintocchi assordanti di una sola campana, quest’articolo è stato un sasso nello stagno. E’ il più "socializzato" della storia di Giap ed è stato ripreso in lungo e in largo per la rete. La discussione qui sotto è partecipata e ricchissima di spunti, approfondimenti, correzioni, precisazioni, conferme, rilanci, rivelazioni, scoperte. "Pare un film di 007", ha scritto un commentatore sbigottito, riferendosi ai colpi di scena che si susseguivano rapidi. Mentre scriviamo, si sfiorano ormai i 300 commenti, con decine di sotto-discussioni ramificate, compresa la vera e propria inchiesta collettiva su metodi e titoli del dicentesi ingegner Di Stefano. Leggere tutto quanto è appassionante, ma anche impegnativo e non tutti hanno il tempo di farlo. Ci ripromettiamo, noi e Matteo Miavaldi, di preparare e pubblicare un secondo post, che aggiorni, faccia il sunto della discussione, affronti i punti critici, tenga accese le braci di un’informazione diversa sul caso. -- WM ] COMMENTI e1ke 03/01/2013 at 10:51 am Volevo farvi un appunto riguardante la questione della giurisdizione. Come avete riportato anche voi nell’articolo, è confermato che la nave si trovasse a 20.5 miglia marine. Come avete riportato anche voi nell’articolo, questo la farebbe rientrare nella zona contigua. A questo punto avete dichiarato che questo la farebbe ricadere automaticamente nella giurisdizione indiana, senza possibilità d’appello alcuna. Ma è una conclusione errata, poiché stando a quanto riportato dall’art. 33 della convenzione di Montego Bay e al diritto internazionale, l’estensione della giurisdizione nella zona contigua è limitata a certe fattispecie esclusive. Scusatemi, basterebbe un minimo di logica e rispondere alla domanda: avrebbe senso d’esistere la divisione tra la zona contigua e le acque territoriali se nelle medesime lo Stato esercitasse la stessa giurisdizione, godendo degli stessi diritti? Ovviamente no, perché altrimenti basterebbe parlare di acque territoriali estese fino a 24 miglia e tanti saluti alla divisione di 12+12. Voglio farvi poi notare che questo è stato affermato anche da Harin Ravel, che è un additional solicitor general indiano (http://en.wikipedia.org/wiki/Solicitor_General_of_India), che ha appunto sostenuto questo: “I have the coordinates of the ship. The vessel carried an Italian flag and was found to be at 20.5 nautical miles from the coast. Our territorial waters end at 12 nautical miles. Beyond it the international law would apply” Qui l’articolo (Times of India): http://articles.timesofindia.indiatimes.com/2012-04-21/india/31378543_1_italian-ship-ship-owners-indian-vessel Esprimendo la sua opinione per quanto riguardava la detenzione della nave (e le corti hanno confermato la sua idea, per quanto non condivisa in linea ufficiale dal governo, perché hanno rilasciato la nave). Qui un altro articolo: http://articles.timesofindia.indiatimes.com/2012-04-23/india/31386478_1_enrica-lexie-italian-ship-ship-owners Il governo indiano poi, come si può leggere nel secondo articolo, ha sostenuto che la giurisdizione spettava all’India indipendentemente dal fatto che la nave fosse o meno in acque internazionali, spostando quindi su altre basi la loro legittimazione (in barba al diritto internazionale). Per concludere, io concordo con quanto sostenete in riferimento ai pennivendoli italiani, al voler fare di questi due uomini degli “eroi” quando non lo sono, ma se si parla di diritto c’è poco da fare, quella nave era a 20.5 miglia marittime con tutto quello che ne consegue. Un saluto da un vostro accanito lettore. dovic 03/01/2013 at 3:27 pm Lo stato pietoso della nostra diplomazia è da imputarsi alla nostra abitudine, di lunga data, di NON lavare i panni sporchi in casa, tradizione che ci viene tramandata sin dai tempi del colonialismo e delle stragi fasciste. Siamo i maestri del depistaggio e dell’insabbiamento e poi ci lamentiamo se riceviamo lo stesso trattamento dagli USA. Non dimentichiamo poi da dove vengono i cosiddetti “pirati somali”. A sentire i nostri media sembra di avere a che fare con Barbanera e capitan Uncino. Invece i pirati nascono come reazione dei pescatori locali alla pesca illegale e allo scarico criminale di rifiuti tossici nelle acque somale, da parte di Paesi europei e asiatici, fra cui l’Italia. Chissà che bel giro d’affari tra istitituzioni, criminalità organizzata e potentati economici c’è dietro questa porcheria, torna in mente Ilaria Alpi. Quadruppani 03/01/2013 at 3:33 pm -Siamo fuori argomento (il post è eccellente, si deve dire) ma il problema dello stupro in India, secondo me, è molto più complesso da quello che dicono le statistiche. In India, la stragande maggioranza dei stupri non sarebbero dichiarati, perché sennò la donna aggredita rischierebbe danni ulteriori, tipo quelli che subivano le donne italiane alcuni decenni fa o quello che subiscono le donne in tanti paesi musulmani : essere trattata da putana (se lo sarà cercato, ecc;), non trovare più mariti se non è ancora sposata, ecc. Il statuto tradizionale della donna indiana nelle zone rurale è ancora molto arretrato, e se le donne indiane si stano liberando sempre di più in città, questo fenomeno produce effetti di backlash come quello dello stupro da cui si è molto parlato, (ed è un bene), ma il fatto che ci siano stati queste enorme manifestazioni fa vedere che le cose stano cambiando. Bisogna anche notare che, secondo quello che ho letto e sentito, il statuto della donna è molto più egualitario nel sud de l’India (nel Kerala, per esempio!). - Leggendo quest’ottimo post, mi è venuto in mento esattamente quello che dice il primo commento (il paragone con il delirio sciovinista sul caso Battisti in Brasile). Il sciovinismo delle vecchie “patrie” prossime alla rottamazione (tipo Francia o Italia) è come il colpo di zampe degli animali ferriti a morte: abbastanza pericoloso. dreand 03/01/2013 at 3:53 pm Che dire della questione “elezioni a Kerala” e “caso Marò usato dai partiti indiani contro Sonia Gandhi”? è realistica o è fasulla? silvio232 03/01/2013 at 4:19 pm Grazie a Matteo Miavaldi si può capire qualcosa di più. Rimane però un’incognita notevole, il motivo per cui la barca dei pescatori indiani si doveva avvicinare alla petroliera italiana (i marò avranno segnalato una sorta di alt prima di sparare). Nè si può intravvedere perché la petroliera avrebbe rincorso i pescatori , per sparare loro, senza nessun motivo. Wu Ming 1 03/01/2013 at 5:09 pm Ehm… E’ già il quarto post di Giap più “socializzato” di sempre (vedi colonna destra). Norbert 03/01/2013 at 5:38 pm Mi permetto di fare una domanda che, mi pare, nessuno sulla stampa italica o indiana (che non seguo, lo ammetto) si sia posto. Ovvero: “Ma i due Marò hanno seguito le ‘regole di ingaggio’?” Se la risposta è “si”, per me sono innocenti anche se avessero sparato sul pescereccio. E a pagare allora dovrebbe essere (come sembra aver già fatto) lo Stato italiano. Domanda accessoria e utile è, sempre secondo me, è “le regole d’ingaggio dei due Marò erano sostanzialmente identiche a quelle date a analoghi distaccamenti di militari su navi commerciali battenti bandiere europee”? Se la risposta fosse “si” il processo potrebbe diventare una “patata bollente” per l’India, perché al posto dei nostri Marò gli altri stati europei potrebbero vedere i loro soldati che rischierebbero analogo processo anche seguendo le regole d’ingaggio Grazie dell’attenzione e buon 2013 StrangeAttractor 03/01/2013 at 5:52 pm C’è una cosa che non mi è chiarissima, ma giusto per mia ignoranza. “La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane.” Quindi è stato l’armatore a dare l’ordine? O in assenza di tale, la seconda carica è quella automatica delle autorità indiane? E poi, la questione del capitano civile che non risponde alle richieste militari italiane, è una cosa regolata dal Codice della Navigazione? Perché io, come privato cittadino, sono comunque soggetto alle eventuali richieste di identificazione di un carabiniere (militare). Franti 03/01/2013 at 7:01 pm Ciao. Discussione proficua sugli elementi di diritto del caso, grazie @e1ke per le puntualizzazioni utili a inquadrarlo meglio. E’ bene leggere in controluce gli interessi in gioco, nuove regole e rotte del caravanserraglio navale rappresentato dalle “acque internazionali”, ma rimane IL fatto. Sono morte due persone e le dinamiche che hanno portato alla loro morte ci raccontano lo stato delle cose. Perchè una piccola barca di pescatori si trovava a tiro di schioppo da una enorme petroliera? Avete idea di quanto sia alta l’onda mossa da un mostro del genere? Ecco la Enrica Lexie http://theaviationist.com/wp-content/uploads/2012/02/enrica_926323f.jpg che, ci viene raccontato, ha dovuto difendersi da un proditorio attacco di pirati che per lo scopo avrebbero usato questo popò di macchina da guerra http://newindianexpress.com/states/kerala/article546487.ece Ci raccontano che la St. Antony era vista come una minaccia alla quale hanno reagito, sbagliando, ma che ci vuoi fare? Solo chi fa sbaglia, no? Regole di ingaggio dei marò? In caso di presunto arrembaggio svariati avvertimenti, 3 raffiche intervallate avanti la prua “nemica” e fuoco diretto solo in caso l’azione di attacco prosegua. Questo è quello che possono fare, in teoria. Se così fosse stato, i 15 colpi che hanno attinto la St. Antony sarebbero stati parte della quarta raffica. Il chè implica che i pescatori indiani avrebbero ignorato le precedenti tre raffiche e avrebbero continuato la manovra di abbordaggio, magari per salire con ventose lungo le fiancate per poi, alla fin fine, presentarsi disarmati di fronte agli stessi fucili che gli stavano sparando. Qualsiasi teoria che prenda per buone le ragioni dei marò deve necessariamente partire dal fatto che i pescatori indiani si sono comportati in modo stupido e suicidario. Non si scappa. Non è plausibile che i pescatori indiani siano privi dell’istinto di sopravvivenza, perchè mai? Se un pescatore si è fatto ore di mare per entrare in pesca e altrettante ne dovrà fare per tornare a casa, ha gettato le reti, le lenze o le nasse accetta malvolentieri di farsi maciullare gli strumenti che gli danno da vivere dalle eliche di una petroliera che ha deciso di andare dritta perchè così gli piace. Quindi rimane fermo, a protezione del suo buon diritto a pescare dove lo ha sempre fatto e dei tuoi strumenti di lavoro. E segnala ovviamente la tua presenza, perchè perdere la barca è ancora più seccante che perdere le reti. Inoltre se sei ancorato o stai pescando con reti non hai possibilità di manovra per evitare possibili collisioni, a meno di non sganciarle. Il codice della navigazione prevede che tu debba segnalare questo tuo impedimento alla manovra, proprio per dar modo a chi stà arrivando a possibile collisione di scansarti, dando per scontato che starai fermo. E’ a una situazione del genere che i marò hanno reagito probabilmente sparando direttamente, forse dopo sbrigativi avvertimenti, forse nemmeno questi. Gli indiani erano sulla rotta sbagliata, perchè la rotta giusta è per definizione quella delle petroliere. Che differenza fa allora se le miglia sono 20,5 o 24,1? Se il pesce è a 30 miglia il pescatori vanno a 30 miglia , anche a 100 se serve. I nostri entrano nel golfo della Sirte. I pesci non hanno passaporto. Lo stato delle cose è che le moderne diligenze imbarcano sbrigativi Pinkerton, ai quali non fa schifo sparacchiare/uccidere a casaccio per ribadire che quando sulla LORO strada/rotta si incrociano un piccolo e un grosso, quello che si deve spostare è il piccolo. Tutto qui, ed è troppo. EricCantonaTheKing 03/01/2013 at 7:13 pm In effetti non è per niente scontata la soluzione… L’Articolo 97 della Convenzione di Montego Bay “Giurisdizione penale in materia di abbordi o di qualunque altro incidente di navigazione” così recita al comma 1: “In caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza.” Stando alla lettera di tale disposizione ed in base alla “lex personae” la giurisdizione sembrerebbe spettare alle autorità italiane, poiché, se ho ben inteso, gli individui ai quali è imputata la responsabilità penale hanno cittadinanza italiana e sono membri dell’equipaggio di una nave che batte bandiera dello stato italiano. C’è però da rilevare che secondo la dottrina penalistica-internazionalistica italiana(e suppongo non sia di diverso avviso quella indiana): 1) la “lex personae” può riferirsi sia al soggetto attivo che a quello passivo del reato, perché se da un lato “rei pubblicae interest habere bonos subditos”(Bartolo)ovunque questi abbiano commesso il fatto criminoso, dall’altro gli stati hanno interesse a difendere i propri cittadini, ovunque essi ricevano offesa ad un bene giuridico tutelato(in questo caso la vita). Comunque dalla lettera dell’Art. 97 a me pare che la norma di diritto internazionale penale si riferisca solo ai soggetti attivi, non a quelli passivi. 2) Bisogna tenere conto anche della “lex loci”, che applicata al caso di specie si presta a diverse interpretazioni. Nell’individuare il “locus commissi delicti” infatti si può procedere per due strade: o si ritiene che tale locus sia quello dove il soggetto attivo abbia posto in essere la condotta omicida(anche solo un elemento dell’ intero iter criminis), o che sia quello dell’evento naturale, causato dalla condotta, della morte clinica del soggetto passivo. Trovandosi i soggetti attivi e i soggetti passivi su imbarcazioni battenti bandiere di diversi stati l’opzione per l’una o l’altra via porta a conclusioni opposte. La Corte Suprema ha una bella gatta da pelare… Alberto Prunetti 03/01/2013 at 8:14 pm Articolo molto molto buono. Aggiungerei che all’indomani dell’assassinio dei “nostri pescatori del Kerala”, i telegiornali italiani davano già a rischio di pena capitale i due militari italiani (ovviamente la nota patemica andava suonata fino ai toni più bassi). Al momento non è stato giustiziato neanche l’unico superstite del commando che il 28 novembre 2008 attaccò Mumbai, uccidendo decine di persone. Un altro elemento da tener conto in questa vicenda (e fa da contraltare al provincialismo italiota) è l’orgoglio anticoloniale e la forte preparazione politica e culturale di tanti cittadini del Kerala. Io in Kerala ci sono stato solo per due settimane (ho vissuto in India quasi un anno) ma, rispetto a altre zone come Bangalore o Mumbai, colpisce la consapevolezza politica, accresciuta dalla tradizione marxista e da quella cattolica che convivono assieme e hanno come risultato un’alfabetizzazione molto elevata: a Bangalore mi è capitato che qualcuno confondesse l’Italia con la Turchia, ma a Cochi, nel 2008, un risciòwallah, un conducente di risciò, era in grado di commentare le risibili avventure politiche di Berlusconi senza che io dovessi spiegargli niente, anzi. Il paese piccolo piccolo è l’Italia, indiscutibilmente, e questa vicenda, mal gestita, mal orchestrata, lo dimostra ampiamente. Grifo 03/01/2013 at 9:48 pm Salve, sono “l’Ing. Di Stefano” della citata “curiosa controperizia”. L’interesse è nato casualmente leggendo gli articoli sulla vicenda del Corriere della Sera, in particolare quando vi si cita il primo dato sul calibro del proiettile da parte di un certo Commissario Firoz”: calibro .54. Ma è l’archibugio di Sandokan! Esattamente il doppio del diametro dei proiettili in dotazione ai nostri militari. Non voglio rifare la storia della “controperizia” (ognuno se la puà leggere e contestare i punti specifici che non condivide), ma accennare almeno a come si forma il dato dell’accusa: la testimonianza dei pescatori. Il peschereccio St. Antony attracca alle ore 22:30 Locali del 15 febbraio nel porticciolo di Neendakara, i pescatori dichiarano che non sanno chi ha sparato, non hanno visto nulla di nulla. Per loro in quel momento la Enrica Lexie non esiste, la petroliera italiana si trova ancora in mare ed attraccherà nel porto di Kochi circa alle 23, ben 64 miglia (120 km) a nord. E’ solo il 22 febbraio (con la Enrica Lexie su tutti i giornali) che il comandante/proprietario del peschereccio Mr. Freddy Bosco dice di essere stato colpito da una nave “nera e rossa” (e potrò poi verificare che “tutte” le navi in zona sono “nere e rosse”) Il 3 di marzo sempre Mr. Bosco in un’altra intervista dichiara la posizione del peschereccio al momento degli spari: al lago della città di Chertala. E quindi circa 24 miglia a nord della posizione della Enrica Lexie al momento in cui Girone e Latorre sparano. Il 21 marzo, in una intervista al settimanale italiano Oggi Mr. Bosco dichiara la posizione del peschereccio al momento degli spari: al largo della città di Kollam. E quindi circa 27 miglia a sud della posizione della Enrica Lexie al momento in cui Girone e Latorre sparano. Insomma abbiamo 4 versioni differenti. Quale è quella giusta? Non lo dico io, lo dicono loro stessi che alle 16:30 del 15 febbraio stavano da tutta altra parte. Come sono sempre le autorità indiane a dire che il calibro del proiettile repertato nell’autopsia non è nostro. Infatti è il direttore dell’istituto di medicina legale della città di Trivandrum, Prof. Sasikala, che nel referto indica un proiettile “diametro 2,4 cm” e “lunghezza 3,1 cm”, e quindi la cartuccia 7,62×54 usata dalla Guardia Costiera dell’ Sri Lanka. Non un proiettile qualsiasi, proprio calibro 7,62, al centesimo di millimetro. Leggo che esisterebbe una “perizia ufficiale indiana”. Mandatemela che la pubblico subito su internet! A me risulta che perfino i capi di accusa sono stati secretati e che non li possono leggere nemmeno gli avvocati difensori. Per il resto potete vedere qui http://www.seeninside.net/piracy/ e resto a disposizione per qualsiasi chiarimento. http://www.lastampa.it/2012/02/21/societa/mare/societa-e-cultura/maro-india-la-prova-c-e-ma-non-e-stata-presentata-PIEhO5p2bMEZhMOoVpsJJK/pagina.html SOCIETA & CULTURA 21/02/2012 – IL CASO DEI PESCATORI UCCISI Marò-India: “La prova c’è, ma non è stata presentata” Parla l’analista Usa Michael J. Frodl: con l’Ais si saprebbe se c’è stato un contatto tra nave italiana e peschereccio Due versioni, contrastanti, sul caso degli spari dall’Enrica Lexie, dei due marò fermati dalle autorità indiane e dei due pescatori uccisi. Al di là delle questioni di competenza giuridica – acque internazionali, immunità – resta la dicotomia tra quanto sostengono gli italiani, e cioè che dalla nave sono stati sparati colpi di avvertimento contro un’imbarcazione pirata, e che il peschereccio potrebbe essere incorso in un altro scontro a fuoco, questo fatale per i due pescatori, e la versione del governo indiano, che invece sostiene l’ipotesi dell’omicidio volontario a carico dei due fuciliari del San Marco che facevano parte della scorta a bordo dell’Enrica Lexie e che hanno sparato contro i pescatori scambiandoli per pirati. Erroneamente, perché “nelle acque indiane non ci sono pirati”. Michael J. Frodl è uno dei maggiori esperti di pirateria mondiale. Avvocato, è fondatore e presidente del consulting “C-LEVEL Maritime Risks”, un gruppo che da consigli alla communita “national security” di Washington ed all’industria delle assicurazioni di Londra da piu di dieci anni. Avvocato, il ministro indiano della Navigazione G.K. Vasan dice che non ci sono pirati in acque indiane. “Le acque del Sud Ovest dell’India sono sempre più bersagliate da pirati somali e da criminalità locale, i quali utilizzano pescherecci per avvicinarsi alle navi in transito. Le autorità indiane lo sanno, ma non lo ammettono perché non vogliono allarmare l’opinione pubblica già scossa da diversi attacchi terroristici, come quello di Mumbai del 2008″. La versione italiana: è plausibile l’ipotesi di due episodi diversi? “Sì, la petroliera italiana potrebbe essere stata avvicinata da una imbarcazione pirata intorno alle ore 16.00 e aver fatto fuoco di avvertimento per allontanarla, mentre l’imbarcazione da pesca indiana, qualche ora dopo può essere stata colpita da una unità simile alla Enrica Lexie con guardie armate a bordo. Gli orari dei due avvenimenti non coincidono. In più i pescatori indiani spesso si avvicinano alle grandi navi per calare le reti a poppa e possono essere stati scambiati per pirati”. L’altra nave ha un nome, si chiama Olympic Flair, batte bandiera greca ed è molto simile per dimensioni e colori alla Enrica Lexie. Questa nave era più a Sud, a circa 2 miglia dalla costa, proprio alla stessa distanza citata dai pescatori sopravvissuti del peschereccio, dove hanno detto che sarebbero stati colpiti. Una distanza dalla costa incompatibile con la posizione della Enrica Lexie. Che tale Olympic Fair abbia subito un attacco lo conferma l’International Maritime Bureau Imb) della Camera di commercio internazionale (Icc). Il governo greco, però, lo smnentisce. “Il comportamento degli inquirenti indiani è molto strano: si sarebbe potuto accertare immediatamente se vi è stato un contatto tra la Enrica Lexie e il peschereccio indiano confrontando le tracce dell’AIS, un apparecchio che segue la rotta di tutte le navi. Tale “occhio elettronico” potrebbe essere una prova lampante che mostrerebbe l’evidenza dei fatti. Perché non è stata ancora presentata? La Guardia Costiera indiana ha mostrato di non conoscere chi aveva sparato al peschereccio, diramando un dispaccio alle navi in transito in quel momento, ve ne erano ben quattro, chiedendo chi avesse avuto un incontro con i pirati. La risposta affermativa è venuta correttamente solo dalla petroliera italiana, ma non è detto che un’altra unità sia colpevolmente rimasta in silenzio”. franzecke 04/01/2013 at 12:06 am Bè non resta che aspettare che Miavaldi torni dalle vacanze per avere notizie di questa perizia ufficiale indiana, visto che nel post ci sono solo link ad articoli di giornale – un po’ quello che viene contestato al sig. Di Stefano quando si dice che la sua perizia era basata su “stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2″ – buffo no? Tralascerei le questioni balistiche che (come del resto il diritto internazionale in merito a questioni marittime) sono roba che va studiata parecchio bene prima di potersene riempire la bocca, e mi concentrerei su quel che mi pare di poter leggere tra le righe di questo pezzo, ovvero perché l’Italia ha così tanto bisogno di eroi e, per andare più nello specifico, perché ‘sti cazzo di eroi devono sempre essere A) militari B) preti e/o martiri C) militari martiri? Da questa semplice domanda credo possa scaturire un dibattito più interessante per tutti e – mi auguro – pure un filino meno retorico. Saluti Wu Ming 1 04/01/2013 at 1:30 am @ Grifo (Ing. Di Stefano), vorrei sottoporle una mia perplessità e chiederle un parere. Per più di un’ora ho cercato su google “Freddy Bosco Kerala”, “Freddy Bosco fishermen”, “Freddy Bosco St. Antony”, “Freddy Bosco Enrica Lexie”, ma… …non ho trovato *nessuna* fonte indiana che menzioni questo signore. Soltanto pagine italiane, o pagine in inglese scritte da italiani (ad esempio, da lei stesso), che presentano costui come il proprietario e comandante del peschereccio St.Antony. Invito chiunque a rifare i miei tentativi. Ditemi se anche a voi risulta così o se sono un inetto io. Io le domando: da dove viene l’informazione che costui si chiama Freddy Bosco? Mi permetta di presentarle alcuni elementi: La voce di Wikipedia dedicata al “2012 Italian Shooting in the Arabian Sea” dice che il proprietario e comandante si chiama Freddie Louis e cita come fonti “Tehelka” e “Gulf Times”. Entrambi i link risultano “rotti”, così ho cercato su google e… …effettivamente, le fonti indiane lo chiamano sempre “Freddie Louis”. Che a me sembrano due nomi di battesimo, non un nome e cognome, ma tant’è. Ma allora da dove viene quest’altro cognome dal suono così poco indiano, “Bosco”? Sul sito dove presenta la sua controinchiesta, lei scrive: “Il 3 Marzo Mr. Freddy Bosco rilascia una intervista al quotidiano “Deccan Cronichle” poi propone uno screenshot dell’intervista, ma il nome “Freddy Bosco” non si legge da nessuna parte. Subito sotto, scrive: “Il 21 marzo, in una intervista rilasciata alla giornalista italiana Fiamma Tinelli del settimanale “OGGI”, Mr. Freddy Bosco, capitano e proprietario del peschereccio St. Antony, nel villaggio di Poothurai dove vive, racconta quello è successo.” poi linka il pdf dell’intervista. Ecco l’articolo con tanto di foto a colori di “Freddy Bosco, 30 anni”. C’è scritto che l’intervista a costui è avvenuta a Poothurai, nell’ufficio di padre Dyson, il sacerdote cattolico del paese, “parroco della Chiesa di San Giovanni di Turtur”. Lei, ing. Di Stefano, si appoggia moltissimo a quest’intervista e alle dichiarazioni che contiene. E allora io cerco di leggere con attenzione, tutto, anche le didascalie. L’intervista si è svolta “nella lingua del Kerala”, scrive Fiamma Tinelli (o forse il didascalista). Piuttosto grossolana, come definizione, perché in Kerala non si parla una lingua sola, comunque suppongo si riferisse al Malayalam. Padre Dyson faceva da interprete (non è specificato in quale lingua: in inglese?) e la giornalista a sua volta ha tradotto per noi in italiano scritto. Faccio notare en passant che Poothurai non è in Kerala, ma nel Tamil Nadu. Stato indiano che la giornalista non menziona mai. Non dice mai in quale stato si trovi mentre fa l’intervista, parla solo, genericamente, di “estrema punta sud dell’India”. Poi mi soffermo a pensare che, qualunque affermazione padre Dyson (prima) e Fiamma Tinelli (poi) abbiano attribuito all’intervistato, quest’ultimo non ha avuto modo né possibilità di verificare, non conoscendo l’italiano e comunque non avendo modo di acquistare una copia di “Oggi”. Vedo anche che nell’intervista la nave, che le fonti indiane chiamano sempre “St. Antony”, è chiamata “St. Anthony”, ma in fondo è un’inezia. Torniamo al nome-cognome che viene citato solo ed esclusivamente dagli italiani. Mi fermo a pensare e mi dico: vista la data (tutte le altre occorrenze del cognome che ho trovato sono successive), questo potrebbe essere il “testo-matrice”, la fonte alla quale tutti gli altri commentatori italiani hanno attinto nel chiamare quest’uomo “Freddy Bosco”. Ma torno alla mia perplessità: perché nessun giornalista indiano lo chiama così? Perché soltanto Fiamma Tinelli lo chiama così? Allora cerco su Google “Poothurai Bosco”. Nemmeno in questo modo trovo il benché minimo riferimento a “Freddy Bosco”… a parte – come accaduto poco prima – nelle pagine del suo sito, seeninside.net. Detta in soldoni: per la rete non esiste alcun Freddy Bosco che vive a Poothurai. Gli unici che parlano di un Freddy Bosco che vive a Poothurai sono: - Fiamma Tinelli di “Oggi”; - l’ingegner Luigi Di Stefano (che però cita la Tinelli); - quelli che citano la Tinelli o Di Stefano. Trovo però un’informazione interessante dentro un comunicato stampa del National Fishers’ Solidarity Movement riguardante la vicenda di cui ci stiamo occupando. E’ datato 17 febbraio 2012, cioè appena due giorni dopo la sparatoria e più di un mese prima della pubblicazione dell’intervista su “Oggi”. In questo comunicato stampa c’è scritto: “The boat in which 11 fishermen were operating was St. Antony Reg. No TN15 MFD 208 belongs to Fredy S/O John Bosco, Poothurai, Kannyakumari District, Tamilnadu”. Sembra di capire che questo Fredy/Freddy/Freddie, al momento di registrare la proprietà del peschereccio, abbia indicato il proprio domicilio presso un certo “John Bosco” di Poothurai. Presumibilmente, è l’indirizzo dove voleva ricevere comunicazioni, posta etc. Ma chi è questo John Bosco? Mi metto a cercarlo. A volte lo chiamano “John De Bosco”, a volte “John D. Bosco”, a volte “John D’Bosco”, a volte “John Bosco”, ma dovrebbe trattarsi della stessa persona: è un prete. Ha una certa età, risulta ordinato sacerdote dal 1970. Mi viene da pensare che Freddy/Fredy/Freddie (Freddie Louis, secondo i media indiani) abbia fatto come si faceva anche nell’Italia rurale fino a non moltissimi anni fa, cioè ha dato come indirizzo dove ricevere comunicazioni dallo stato l’indirizzo del prete. Ma, chiaramente, è solo un’ipotesi, fondata su pochissimo, quasi niente. Come è un’ipotesi, anzi, una mera suggestione, che qualcuno si sia sbagliato e da “Fredy presso John Bosco” abbia ricavato “Freddy Bosco”. Eppure Fiamma Tinelli lo ha incontrato, costui. Lo ha incontrato a Poothurai. Ci sono anche le foto di lui e di “parte del suo equipaggio”, e della giornalista che prende appunti mentre padre Dyson traduce. Possibile che abbia addirittura sbagliato a scrivere il nome della persona che stava intervistando? Insomma, io questa discrepanza non me la so spiegare. Spero me la sappia spiegare lei. Naturalmente, può sempre darsi che io non sia bravo a fare le ricerche su google. Però, mentre navigavo, mi si è formata in testa una riflessione. Una riflessione che riguarda, in generale, la non-comunicazione tra i saperi e le discipline, e più nello specifico cosa mi è – sin dall’inizio – “suonato male” riguardo alla sua controinchiesta, ing. Di Stefano, o meglio, a una parte delle sue premesse metodologiche. E qui mi ricollego alle notazioni “en passant” che ho fatto sopra. Perché prima ero di passaggio, ma adesso posso soffermarmici sopra. Ci sono le cosiddette “scienze dure”, quelle dei matematici, dei fisici, degli ingegneri, ma non sono le uniche scienze esistenti. Ad esempio, esistono le scienze del testo, del linguaggio e della comunicazione: filologia, semiotica, linguistica, psicologia cognitiva etc. Scienze che spesso gli scienziati “duri” non considerano tali, e relegano nell’ambito della cosiddetta “cultura umanistica”, così imprecisa, così sbrodolona, così con la testa per aria… Secondo me, e lo dico da tempo, una maggiore collaborazione tra le scienze dure e le scienze… quell’altre che ho detto sarebbe molto utile a chi fa un lavoro come il suo. Perché, vede, nella sua controperizia si vede di primo acchito che si è basato su testi di diverso statuto e di diversa natura, ciascuno col suo funzionamento, il suo linguaggio, le sue retoriche (per capirci, noi che ci occupiamo di segni e di linguaggio annoveriamo tra i “testi” anche i video di YouTube). Però sulla loro diversità di statuto non sembra essersi granché interrogato. E questo potrebbe aver generato distorsioni, che poi si sono ripercosse su tutto il suo modo di procedere. In parole povere: un’intervista è la traduzione di un parlato nello scritto, uno scritto che contiene almeno due “voci”: quella di chi intervista, e quella di chi viene intervistato. Mettiamo che i due provengano da culture diverse, conducano vite lontanissime l’una dall’altra, parlino lingue diverse e non si capiscano senza un interprete. Poniamo, per non farci mancare nulla, che quest’interprete in realtà non traduca nella lingua dell’intervistato ma in una lingua intermedia, una lingua franca (es. l’inglese). Lei converrà che il numero di passaggi aumenta parecchio: l’interprete come traduce le domande all’intervistato? E come traduce le risposte all’intervistatore? E cosa ne ricava quest’ultimo? Le probabilità di errore, distorsione, fraintendimento sono molto alte. Chi si intende di testi e fonti, chi se ne occupa per lavoro (scrittore, storiografo, filologo, semiologo etc.), prende con le pinze i virgolettati di un’intervista così: un’intervista multiculturale e multilingue scritta per un rotocalco e costretta in un preciso numero di battute tipografiche. Uno che abbia la dovuta *competenza testuale* saprà come “interrogare” quei virgolettati, dando per scontato che non vi troverà l’accurata esposizione di quel che l’intervistato ha detto. Ci sono stati davvero troppi passaggi. Freddy (Bosco?) ha sentito domande tradotte dall’inglese parlato da un’italiana al malayalam, ha risposto in malayalam, l’interprete ha tradotto in inglese e l’italiana ha tradotto per noi in italiano scritto. Anche dando per intesa la buona fede e la volontà di riportare fedelmente, nel processo può esserci stata ogni sorta d’equivoco. E’ già un “segnale” strano, ne converrà, che quest’intervista sia cronologicamente il primo testo disponibile in rete che chiami l’intervistato “Freddy Bosco”, e che dopo di esso soltanto italiani che l’avevano letta l’abbiano chiamato così, mentre per i media indiani questo nome-cognome non esiste. Però lei si appoggia a quest’intervista come se fosse un testo che presenta oggettivamente, univocamente, neutramente quanto dichiarato, e da quei virgolettati fa partire ragionamenti, deduzioni, comparazioni con altri testi. Testi che però hanno diverso statuto e diversa natura, oppure hanno il medesimo statuto, cioè sono interviste, ma sono stati prodotti in altre circostanze (l’intervistatore era del Kerala o del Tamil Nadu, non c’era bisogno di interprete etc.) Naturalmente, non è affatto detto che questo infici la parte più tecnica (di “hard data”) della sua controperizia, sulla quale non posso esprimermi con sufficiente competenza. Ciononostante, già da questo primo approccio e tentativo (frustrato) di verifica di alcune informazioni che riprende e a sua volta fornisce, ho la sensazione – da scrittore di formazione storiografica e persona che professionalmente legge, interpreta e scrive testi – una certa carenza di competenza testuale (aridaje!) del “tecnico” al cospetto di fonti ibride, sbavate, opere ermeneuticamente più “aperte” di un tabulato di calcoli, espressioni intimamente e irrimediabilmente contraddittorie, proprio com’è il mondo “qui fuori”, tra noi “umanisti”. Ho scritto questa pappardella per esortarla a scavalcare lo steccato che divide i nostri saperi. Perché, vede, se al momento di raccogliere e vagliare le dichiarazioni che ha preso in esame si fosse rivolto a una persona dotata della competenza testuale di cui sopra, forse avrebbe preventivamente parato alcuni colpi, e un giornalista come Miavaldi non avrebbe avuto modo di far notare quello che a suo dire è un esagerato affidarsi a fonti di natura troppo variegata e labile. Perché è questa la critica principale che le ha fatto Miavaldi. E gliel’ha fatta da giornalista, cioè da uno che sa di che pasta sia fatta un’intervista, e in generale quanto “vaporoso” possa essere un testo giornalistico. Spero di non averla tediata, e di averle posto questioni che potranno tornarle utili. Grazie dell’eventuale attenzione. pacchetti 04/01/2013 at 7:57 am sulla questione (Freddy) John Bosco, il sacerdote in questione appare qui nel video al minuto 1:36, commentando una presunta apparizione della Madonna…. http://www.thoothoor.com/v5/report_PoothuraiMaatha.asp Niente a che fare, quindi con il Freddy intervistato da Oggi. Alberto Prunetti 04/01/2013 at 10:32 am Visto che si continua a parlare ancora di pirateria in Kerala, ricordo a tutti che i casi di pirateria in questo stato indiano sono almeno più di 1200 nel solo 2012. Basta andare su google: http://www.google.com/search?client=aff-maxthon-newtab&channel=t2&q=kerala%20piracy#hl=it&client=aff-maxthon-newtab&tbo=d&channel=t2&sclient=psy-ab&q=kerala+piracy&oq=kerala+piracy&gs_l=serp.12…0.0.2.1007.0.0.0.0.0.0.0.0..0.0…0.0…1c.OhCm0rPlelM&psj=1&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_qf.&fp=20cc9951bcf72f21&bpcl=40096503&biw=1236&bih=578 L’unica conclusione sensata è che la gente scarica gratis e illegalmente i film porno nei paesi cattolici più che in quelli hindu e musulmani. Buon dowload e speriamo che non mandino coi soldi pubblici i “loro” marò a sparare su chi scarica la musica senza pagare a giro per il mondo, eh? Maledetti pirati… Grifo 04/01/2013 at 10:44 am Caro Miavaldi, conosco benissimo e apprezzo il lavoro dei giornalisti, figuriamoci. Io sono diventato “esperto” in questo genere di indagini proprio perchè dal 1987 alla fine del 1994 ho collaborato con un giornalista, il compianto Franco Scottoni di Repubblica. A lui serviva un tecnico in grado di leggere in modo professionale le varie perizie e controperizie sul caso Ustica, e per ben 7 anni ho avuto questa funzione, zitto e mosca come una talpa. Poi, quando è uscita la perizia Taylor che concludeva “bomba nella toilette” me la sono studiata sei mesi, mi sono fatto portare da Priore con un memoriale di 12 pagine, sono stato nominato CT dalla compagnia aerea, ci ho lavorato ancora un anno, e a fine ’95 ho depositato la mia nota tecnica che ha fatto buttare nel cestino la perizia della bomba nella toilette. Quattro anni di lavoro di 11 luminari italiani e stranieri, e 45 miliardi del pubblico erario spesi, ma era viziata da tali e tante contraddizioni da essere dichiarata “inutilizzabile”. Il difficile era evidenziarle in modo oggettivo, le contraddizioni. A ottobre ’95 sono stato chiamato da Priore a partecipare al supplemento di perizia radaristica analizzando per quattro anni i dati radar delle stazioni della NATO e del Controllo del Traffico aereo. Poi ho fatto altre inchieste del genere, sia come perito giudiziario (Procura di Ancona, 2005) che di parte civile (incidente aereo a Genova, 2008) Chiarito il curriculum, che direi inappuntabile, è vero che l’analisi sulla Enrica Lexie è fatta finora sui dati non ufficiali. E vorrei vedere che lo fosse! L’accusa deve dimostrare la colpevolezza al di la di ogni ragionevole dubbio, e se emergono elementi di dubbio è l’accusa che li deve chiarire, mica la difesa. E’ la base del Diritto. Se il processo sarà fatto (Italia o India non importa) nel rispetto degli elementi del diritto allora tutti ci dovremo riconoscere nella sentenza. Altrimenti, se il tutto avverrà senza che i capi di accusa e gli elementi probatori a supporto siano stati resi pubblici fin dal principio sarà una buffonata, una caccia alle streghe dove l’accusato deve dimostrare di non essere colpevole. La strega non poteva dimostrare di non essere andata al sabba a cavallo di una scopa e di non essersi accoppiata col diavolo, per cui finiva sul rogo. Io mi impegno finora a che qualsiasi documento ufficiale mi venga dato a pubblicarlo per intero, senza sintesi, riassunti o estrapolazioni. Immagino che tutti vorremo fare altrettanto. (comunque ringrazio tutti per questa possibilità di confronto e della possibilità di spiegare i dettagli della vicenda) maurovanetti 04/01/2013 at 11:15 am Mi permetto di aprire un sottothread separato partendo da un commento fatto più sopra da @Norbert: “Visto che i Marò (e analoghi su navi di altri paesi) non son stati messi lì in un attacco di machismo neocolonialista degli stati europei ma per combattere la pirateria (e l’aumento dei costi, che si scaricherebbe comunque sui cittadini – consumatori) spero bene che tutti gli stati rivieraschi interessati abbiano informato i rispettivi naviganti” Si sbaglia proprio dove fa del sarcasmo: i marò *sono* stati messi lì in un attacco di “machismo neocolonialista”. E nel caso dell’Italia dire “necolonialismo” è particolarmente appropriato, perché la pirateria somala è il risultato di condizioni politiche che si sono determinate in Somalia, cioè in una ex colonia italiana che l’Italia ha continuato a “seguire” anche dopo la fine ufficiale della colonizzazione. Per quanto riguarda i costi sui consumatori, basta consultare Wikipedia per scoprire che i danni subiti dalla marina commerciale a causa dei furti nei porti sono molto maggiori di quelli subiti a causa della pirateria, ma non per questo si mette l’esercito sulle banchine d’Europa. Il problema della pirateria non è un problema di microcriminalità, ma una gigantesca questione politico-economica; la scelta di affrontarla con lo stesso apparato militare, diplomatico e ideologico della “guerra al terrorismo” è una scelta politica e non tecnica, così come la scelta di integrare l’esercito statale nelle flotte commerciali private. Invito tutti a leggere questa voce di Wikipedia che è straordinariamente interessante per capire di cosa stiamo parlando: http://en.wikipedia.org/wiki/Piracy_in_Somalia El_Pinta 04/01/2013 at 4:59 pm So che la fonte farà storcere il naso a qualcuno, ma segnalo ugualmente questo articolo che credo possa essere un ulteriore contributo alla discussione http://www.vice.com Grifo 04/01/2013 at 8:09 pm Signori, io sono venuto qui per confrontarmi sui fatti della Enrica Lexie. Le mie vicende politiche o personali non cambiano il calibro del proiettile repertato nell’autopsia, non cambiano l’attacco pirata alla petroliera greca Olympic Flair o il fatto che la “perizia ufficiale indiana” sia tuttora secretata. Se volete continuare il confronto sulla Enrica Lexie disponibilissimo, se ci sono di mezzo pregiudiziali ideologiche ditemi e la piantiamo qui. Notizia di poco fa è che la “perizia ufficiale indiana” (cioè i capi di accusa e documenti a supporto) saranno resi pubblici all’inizio del processo, e quindi li avrò e li metterò in rete a disposizione di tutti. Ma se l’Alta Corte indiana dovessere sentenziare a favore della giurisdizione italiana tutto resterà secretato. vitodi 04/01/2013 at 11:23 pm Giulio Terzi Ministro Esteri 3 gennaio 14.37.07 l’unica prova per permetteva di identificare i “mittenti” dei proiettili (perchè ogni nazione ha calibri differenti), la barca dei presunti pescatori, è stata guarda caso affondata (non è uno scherzo: affondata, nonostante fosse la prova regina) dalle autorità indiane in quanto non sicura perchè bucata dai proiettili (e perchè allora non è stata tirata in secca e posta sotto sequestro?). capisce che con tutti questi elementi 8e molti altri coperti da segreto processuale) c’è n’è perlomeno da dubitare…… webmike86 05/01/2013 at 11:10 am Cercando di andare oltre le normali strumentalizzazioni che, dato il livello medio del giornalismo italiano, inevitabilmente emergono, a mio parere ci sono molti aspetti sui quali siete passati sopra dandoli, a torto, per assodati e certi. 1- Vorrei che pensaste un attimo alle dimensioni di una petroliera: ne avete mai vista una? Non è un vascello di 10 metri, l’Enrica Lexie in particolare è un gigante lungo 244 metri e alto 42 (circa 30 dal pelo dell’acqua) e si muove a circa 12 nodi. Riuscite a spiegarmi per quale motivo una barcarola di “pescatori” si è avvicinata all’Enrica Lexie? Cosa diavolo pensavano di pescare a meno di 150 metri (distanza massima dalla quale i marò con le armi in dotazione potevano uccidere) da una super petroliera? Perchè si sono avvicinati così tanto? 2- Che motivo potevano avere i marò a sparare contro quel vascello di pescatori inermi? Per scherzo? Per paura? Per errore? Qual è il motivo? 3- La zona contigua come ha esaurientemente descritto un commento è una convenzione che si applica in rarissimi casi, la nave ha giurisdizione non indiana e si trovava al di là di ogni ragionevole dubbio in acque internazionali. Quindi chi ha abusato del diritto internazionale? Questi non sono estratti dal Giornale ma semplici considerazioni. Emanuelef 08/01/2013 at 3:26 pm L’articolo, pur apprezzabile, muove da una interpretazione errata delle pertinenti norme di diritto internazionale. In particolare, la frase che segue è fuorviante e inesatta: “Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.” Questo non è corretto. Il trattato internazionale rilevante in materia è la UN convention on the law of the sea (UNCLOS) del 1982. Questa prevede all’art. 3 che il mare territoriale, acque sulle quali lo stato ha diritto ad esercitare la propria sovranità, si estendano per 12 miglia. La zona contigua, la quale come riportato si estende per 24 miglia, non è soggetta alla giurisdizione dello stato se non per : “(a) prevent infringement of its customs, fiscal, immigration or sanitary laws and regulations within its territory or territorial sea; (b) punish infringement of the above laws and regulations committed within its territory or territorial sea.” (art. 33). Le violazioni imputate ai marò non rientrano in nessuna delle predette categorie. Conseguentemente, non sono punibili le condotte da loro poste in essere nella zona contigua. Nonostante i marò non si trovassero propriamente in “acque internazionali” (oltre le 24 miglia), di certo non si trovavano entro le acque territoriali. La giurisdizione indiana non dovrebbe radicarsi. I militari dovrebbero, dunque, essere processati in Italia. Detto questo, condivido l’opinione per cui non possano essere definiti eroi. Sono sinceramente dispiaciuto per i due morti e per le loro famiglie, eppure dobbiamo considerare che gran parte degli attacchi pirateschi documentati sono stati effettuati da barchini camuffati da pescherecci o barche da turismo. berja 10/01/2013 at 12:19 pm Buongiorno, riguardo la balistica, soprattutto quella definita “terminale” si trovano una valanga di informazioni utilissime su questo sito: http://www.grurifrasca.net. Da leggere un poco turandosi il naso, visto che i loro libri erano presenti all’EXA nello stand delle edizioni Ritter (!). Altra fonte di elezione è questa: http://www.earmi.it/default.htm Il curatore è un ex-magistrato che viene ritenuto uno dei principali esperti italiani di diritto connesso alle armi ed al loro uso. Tanto per avere qualche informazione sulle deformazioni dei proiettili ed alle metodologie da seguire in ambito di analisi balistica. Spartacus 28/02/2013 at 10:34 am Ho lasciato l’India nel 1990. Ogni anno in India per una questione di soldi (dote mancata o insufficiente delle mogli) ben 100mila donne perdono la vita, indotte a suicidarsi o bruciate vive. Sono passati circa 22 anni e nel frattempo hanno perso la vita DUEMILIONI E DUECENTOMILA povere donne spesso nel fiore degli anni. Per una manciata di denaro. La fonte documentata di questi dati statistici “razzisti” è assolutamente indiana. Naturalmente le leggi indiane sono assai severe nei confronti di chi appicca il fuoco alla moglie, ma questo resta ancora un fenomeno ben radicato nella cultura indiana. Anche i paria (casta di individui relegati quasi a ruolo di bestia) hanno adesso i loro diritti costituzionali, eppure il tessuto culturale li relega tuttoggi a una condizione estremamente umiliante. Diaciamo che è razzismo interno. Abbiamo parlato solo di donne uccise per denaro, ma solo Dio sa quanti uomini perdono la vita per un pugno di rupie. Per esperienza personale (per aver visto e non utilizzato) potrei raccontarvi – è un grosso fenomeno chiaramente di appartenenza alle classi povere – di figlie bambine vendute alla depravazione dei tanti più abbienti, e di tante povere donne costrette a prostituirsi per una razione di cibo. Vi scandalizzate ancora se, ragionando con una mentalità che certo non appartiene a me ma al mondo che vi ho descritto, ritengo che i parenti dei pescatori uccisi si sono ben riconciliati col mondo una volta incassati quei tantissimi (per loro) quattrini? Fatelo pure, ma il razzismo non c’entra. Tornando ai nostri marò, bisogna saper leggere quello che è accaduto tra il tribunale federale di Delhi e quello del Kerala. Ve lo spiego. Quello del Kerala ha accettato l’indennizzo ai parenti delle vittime, e lo ha fatto assecondando il desiderio dei parenti stessi di tradurre in denaro la morte del congiunto. Tale baratto, che a noi non-indiani appare di un cinismo inaccettabile, è invece espressione di una mentalità sociale colà condizionata dalla lotta per la sopravvivenza. Bisogna vivere sul posto per compenetrare e comprendere questo aspetto durissimo del popolo indiano. Certo riguarda soprattutto la popolazione povera, che però è la stragrande maggioranza. E fa dunque testo. Il tribunale di Delhi ha bacchettato quello del Kerala per aver concesso le condizioni a che i parenti delle vittime ritirassero la loro denuncia, alleggerendo così il carico penale dei due marò. Perchè? Perchè per Delhi è importante l’aspetto politico e non quello penale e pecuniario. I marò italiani devono essere puniti soprattutto (se non soltanto) per essere tali. L’opposizione politica a Sonya Gandhi – nel 1989 strinsi la mano del povero marito Rajhiv – chiede la testa dei due italiani e, magari, sarà accontentata dal Governo tanto per mostrare una presa di distanza dagli italiani “corruttori” da sempre (e non soltanto ora per la faccenda degli elicotteri). Dunque, il nodo è politico. Per quanto, perciò, anche espresso nella mio precedente intervento, raccomando ai nostri due cow-boys dal grilletto forse troppo facile, di non rientrare in India. Ciò detto mi tolgo dalle balle, come mi è stato raccomandato tacciandomi caparbiemente di razzismo. Anche questa è stata un’esperienza interessante. Grazie e addio per sempre. Spartacus 28/02/2013 at 12:34 pm Scusate, ma avevo dimentaticato di citare che nel 2011 un rilevatore statistico governativo cita la scomparsa di ben 3milioni di bambine all’anno!. Vale a dire che larghi strati della popolazione praticano per cultura e tradizione l’infanticidio delle femmine, ritenute un peso economico insostenibile. Stiamo sempre lì: la vita umana per una manciata di denari (in questi casi, di risparmio). Migliaia di bambini ogni anno vengono venduti dalle famiglie povere per un pugno di rupie, e vengono avviati a lavoro da schiavo o alla prostituzione. Cose orribili? Assai peggiori dei dei pescatori? Se queste cose le dicono gli indiani, va tutto bene; se lo dice uno di noi allora è un razzista. Bho?!