Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 23 Giovedì calendario

IL COMPAGNO HCB


Forse aveva ragione la signora che fece impazzire gli archivisti del MoMa chiedendo le fotografie del misterioso Kurt Yaberson. Forse avevano ragione i cinesi a chiamarlo Ka Beu-Shun, o gli indiani Karttikkeya. Forse aveva ragione lui stesso a firmarsi Hank Carter. Non è mai esistito un solo Henri Cartier-Bresson, se non come monumento, con poche frasi scolpite sul piedistallo e ripetute come sure coraniche da schiere di devoti, statua immobile e non somigliante, ma che è stata la sua immagine popolare per decenni.
Dov’è il vero HCB? Chi è HCB? «Di chi si tratta?», chiese di lui, ancora vivo, una mostra che non riuscì ancora a scrostare il mito dall’esperienza viva «dell’occhio del secolo», un uomo che amava «l’immaginario preso dal vero», ma lo cercò in modi diversi. Uno dei quali, forse decisivo per spiegare gli altri, è quello che un pudore ideologico incomprensibile ha sottovalutato se non negato: la passione militante, l’ardore rivoluzionario dell’HCB degli anni Venti e Trenta: idealista, comunista, anticolonialista, con uno slancio che fu il motore segreto del suo desiderio di vedere e di far vedere.
A dieci anni dalla scomparsa, forse c’è una risposta a quella domanda, de qui s’agit-il?.
Finalmente la figura di HCB viene sottratta all’abbraccio ugualmente soffocante di adoratori e detrattori e consegnato allo sguardo critico della distanza: lo chiese l’ultima moglie, Martine Franck, prima di morire un anno e mezzo fa; lo ha voluto fortemente Agnès Sire, direttrice della Fondation HCB; lo ha compiuto Clément Chéroux, direttore del fotografico al Centre Pompidou di Parigi, dove fra tre settimane (ma il catalogo, dal titolo icastico Henri Cartier-Bresson, è già disponibile anche in italiano, per i tipi di Contrasto) aprirà la prima retrospettiva non nostalgica sul «cacciatore vegetariano», sul «borseggiatore gentile», sul «tiratore zen» che, comunque lo si giudichi, ha dominato le opinioni e le emozioni fotografiche del Novecento.
Che esistessero più periodi, o maniere, nei cinquant’anni del travolgente ménage tra il taciturno biondino e la sua Leica, era già acquisito dalla critica. Ma restava da spiegare il salto brusco fra l’HCB surrealista dell’anteguerra e il fotogiornalista del dopo, tra l’artista e il reporter, tra l’intuizione extrarazionale della «bellezza convulsiva» e la teorizzazione geometrica dell’«istante decisivo». Troppo esile, per questo, l’aneddoto del consiglio che gli diede il giovane collega Bob Capa, al momento di fondare insieme l’agenzia Magnum: «Henri, nascondi il surrealismo nel tuo cuore».
Sbirciando nella faglia fra tensioni così divergenti, Chéroux ha trovato la fessura, l’ha allargata, e ha scoperto un mondo. C’è un terzo HCB tra i due «ufficiali », ed è il ponte, l’anello mancante. È il giovane parigino colto e curioso che segue André Breton nell’avvicinamento al Partito comunista, che dopo aver vagabondato per le strade a caccia di estetiche involontarie mette l’acutezza del suo occhio al servizio della rivoluzione, dei proletari, degli emarginati; che pubblica sui giornali della sinistra, Ce Soir e Regards, reportage sugli scioperi, sui bambini dei quartieri operai, sulla conquista delle ferie pagate. È il rampollo di una delle famiglie più ricche di Francia che, sollecitato da Aragon, segue i corsi di marxismoleninismo e i congressi del-l’Aear, l’associazione degli artisti rivoluzionari. È il flâneur cacciatore che trasforma la sua arme de chasse, la fotocamera, in arme de classe.
È il giovane viaggiatore che cerca in Africa i segni del tallone d’acciaio, in Messico le speranze di una rivoluzione torrida, che negli Usa frequenta circoli radicali, i neri della Harlem Renaissance e i cineasti filosovietici di NYKino, e tornato in Francia si mette a lavorare con Renoir, Pabst, Buñuel, e fa documentari sulla guerra di Spagna e sulla Liberazione.
Certo, fu HCB per primo a stendere un velo di oblio su quel periodo rosso fuoco. Non sappiamo come reagì al patto Molotov- Ribbentrop, ma era amico di Paul Nizan e Chéroux suppone che la prese male come lui.
Ormai lontano dalla militanza, affascinato dalle filosofie orientali, nelle tarde interviste preferiva definirsi «un umanista», valore- rifugio di tanti intellettuali di sinistra delusi, da Sartre e Malraux a Merleau-Ponty.
Ma senza il Cartier-Bresson militante, senza il suo «duro piacere» di guardare in faccia la realtà, non avremmo avuto il Cartier-Bresson che tutti conoscono, il narratore dallo sguardo perfetto di un pianeta in subbuglio. La volontà di creare Magnum come cooperativa autogestita di fotografi, e la scelta di assegnarsi la copertura dei paesi in lotta anticoloniale, l’India, la Cina, non sono allora casuali, sono segni di una coerenza politica. La stessa scelta, clamorosa, di abbandonare la fotografia come mestiere, nel 1974, e di tornare per l’ultimo trentennio di vita al disegno e a qualche rara foto intimissima, più che l’eremitaggio di un guru viene ora interpretata come tacita protesta contro la mercificazione e la caduta delle motivazioni ideali nelle nuove leve del fotogiornalismo.
Evaporano, in questa demitizzazione, molti luoghi comuni del cartierbressonismo: il comandamento dell’«istante decisivo » (che sulla sua copia di Images à la sauvette, conservata alla Fondation, HCB corresse aggiungendo a matita un autoironico «parfois»: un istante talvolta decisivo...); la sua presunta antipatia per il colore (smentita dagli archivi), o la mistica del bordino nero «vietato ritagliare la foto» (che compare solo molto tardi).
Si scandalizzerà qualcuno, per il revisionismo? Forse no: ormai altri vangeli, meno idealisti, impongono i loro versetti alla massa dei fotografanti. Mito decaduto? Lui risponderebbe firmandosi con l’ennesimo dei suoi pseudonimi: En Rit Ca-Bré, Cartier-Bresson se la ride.