La Repubblica 23/1/2014, 23 gennaio 2014
CINA, MILIARDI NEI PARADISI FISCALI LO SCANDALO CHE FA TREMARE IL REGIME
PECHINO — «Schiacceremo sia le mosche che le tigri». La promessa di Xi Jinping ai cinesi, esasperati dalla corruzione dei funzionari del partito-Stato, potrebbe non bastare per fermare lo scandalo che minaccia di travolgere gli auto-dichiarati eredi di Mao Zedong. Il nuovo leader di Pechino aveva dimenticato di citare nella lista anche i media indipendenti stranieri, che inchiodano ora sia lui che i vertici politici ed economici della seconda potenza mondiale. Un’inchiesta del consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icjs), con sede a Washington, rivela che almeno sei tra i massimi esponenti del partito comunista, sedici tra magnati dell’industria e manager dei colossi di Stato, oltre che 22 mila nuovi ricchi cinesi, tra il 2000 e oggi hanno nascosto tra mille e 4 mila miliardi di dollari in paradisi fiscali delle Isole Vergini britanniche e di altri centri finanziari inseriti nella lista nera internazionale, tra cui Samoa e Isole Cook. A guidare l’autoritarismo cinese, ufficialmente impegnato nella campagna contro lussi e sprechi della nomenclatura corrotta, sarebbe cioè una cupola di dirigenti concentrati in realtà nel favorire clandestinamente l’arricchimento proprio e delle proprie famiglie, esportando poi i tesori nei nascondigli offshore.
L’inchiesta, ribattezzata “Chinaleaks”, è partita due anni fa, è entrata nel vivo negli ultimi sei mesi e si fonda su 2,5 milioni di file riservati, forniti anche da un pool anonimo di giornalisti cinesi. Ieri, appena i siti web di alcuni quotidiani europei hanno lanciato le prime notizie, la censura di Pechino è intervenuta oscurando le versioni online e rendendo inaccessibile anche la banca dati dell’Icjs, che documenta l’inchiesta denominata “Offshore secrets”. Lo stesso trattamento bandisce dalla Cina le versioni elettroniche di New York Times
e Bloomberg, primi media a denunciare i patrimoni occulti dei leader cinesi. Ad aumentare la tensione, nelle stesse ore, il via al processo contro l’avvocato-dissidente Xu Zhinyong, paladino della lotta per la trasparenza sui beni dei funzionari, accusato di aver turbato l’ordine pubblico. L’udienza è stata blindata e il tribunale circondato dalla polizia, che ha fermato manifestanti e giornalisti. Sia l’inchiesta sui paradisi fiscali dei “principi rossi” che il processo all’avvocato anti-corruzione sono stati censurati dai media di Stato, che hanno avvertito invece come «sia in atto un complotto di forze straniere ostili, teso a minare la leadership cinese per frenare l’ascesa globale della nazione».
I fatti emersi dalle indagini giornalistiche, sebbene controllare società offshore in Cina non sia reato, rischiano di far implodere il potere comunista. Tra i coinvolti nella maxi-esportazione di capitali occulti ed esentasse, il marito della sorella maggiore del presidente Xi Jinping, il
figlio, la figlia e il genero dell’ex premier Wen Jiabao, il cugino dell’ex presidente Hu Jintao, il cognato del successore di Mao, Deng Xiaoping, e la figlia del leader rivoluzionario Li Peng. Tutti avrebbero sfruttato privilegi, informazioni e rapporti della “nobiltà rossa” per accumulare miliardi nei paradisi fiscali che per decenni hanno rinfacciato all’Occidente. Nella lista dei grandi evasori cinesi, anche decine di membri dell’Assemblea del Popolo, oltre che gli uomini d’affari e i manager pubblici più famosi del Paese. Tra essi, Yang Huiyan, la donna più ricca della Cina, e i fondatori del colosso del web Tencent, Pony Ma e Zhang
Zhidong. Attraverso intrecci societari sofisticati, parenti dei leader e businessmen controllerebbero holding e conti correnti offshore in cui confluiscono i proventi di tangenti, miniere, finanza, energia, appalti pubblici, armi, costruzioni e di tutti gli affari dell’immenso boom economico cinese. A fungere da intermediari, alcuni tra i giganti del credito mondiale: Ubs, Credit Suisse, Deutsche Bank e Pwc.
Quella delineata dall’inchiesta è un’impressionante complicità tra classe dirigente cinese, credito occidentale e paradisi fiscali caraibici, capace di drenare immense ricchezze dalla Cina, o di controllarne le poltrone che contano, come emerso dallo scandalo JpMorgan. Xi Jiping e Wen Jiabao, nei mesi scorsi, erano già stati al centro di scandali finanziari, censurati in patria. Il presidente avrebbe accumulato un tesoro e nei giorni scorsi è emerso che un editore di Hong Kong, prossimo a stampare un’esplosiva biografia del leader, intitolata “Il padrino cinese”, è stato arrestato. L’ex premier è stato accusato invece del controllo di un tesoro famigliare da 2,7 miliardi di dollari e l’altro ieri, con una misteriosa lettera recapitata ad un quotidiano di Hong Kong, dopo due anni ha improvvisamente protestato la sua innocenza. I leader finiti ora sotto accusa sono gli stessi che hanno fatto arrestare per corruzione l’ex capo neo-maoista Bo Xilai, l’ex ministro delle ferrovie Liu Zhijun, l’ex capo della sicurezza e dell’energia Zhou Yongkang, oltre che 182 mila funzionari nel solo 2013. A poche ore dalla bomba-paradisi fiscali, le autorità di Pechino avevano arrestato il generale Gu Junshan e tuonato contro «eccessi e stravaganze» in vista del capodanno lunare, escludendo dal tradizionale galà televisivo la star del rock Cui Jian, decisa a ricantare dopo 25 anni l’inno degli studenti di piazza Tienanmen.
Il presidente Xi Jinping, che a fine dicembre si era fatto riprendere in un fast-food della capitale, intento a consumare un pasto da 2,5 dollari, aveva avvertito: «Tutte le mani sporche saranno tagliate». Coincidenze. Adesso è costretto a tentare di salvare prima di tutto le sue.