Marco De Martino, Vanity Fair 22/1/2014, 22 gennaio 2014
MICHAEL FASSBENDER POI HO PRESO LA FRUSTA
È lui a salutarmi per primo. Riconosce il taccuino e il registratore che tengo in mano nel corridoio dell’albergo di New York dove lo sto aspettando. «Buongiorno», dice in italiano. «Cinque minuti e arrivo», aggiunge prima di chiudersi con publicist e assistenti nella suite. Incredibile ma vero: in quel gruppo era persino difficile notarlo. Già vicino alla leggenda, ma ancora non troppo lontano dal suo esordio sui set, Michael Fassbender resta sospeso in quello strano limbo della celebrità dove puoi essere allo stesso tempo uno qualunque e uno degli uomini più desiderati del pianeta.
Ma forse c’è anche una volontà precisa in questo suo restare quasi anonimo, e lo capisci quando ti siedi davanti a lui e cominci a guardare quegli occhi di ghiaccio blu che scappano come le sue amate Ferrari: parliamo per un attimo dei bolidi del Cavallino, mi chiede, quasi da tifoso, dei rapporti tra Fernando Alonso e Luca di Montezemolo. Lui della sua vita privata – vedi il flirt di cui abbiamo scritto una pagina fa – vuol far sapere il meno possibile perché distrae dalla performance, e nel caso uno se ne fosse dimenticato te lo ricordano le publicist prima dell’intervista: si parlerà di cinema e poco altro.
Ma ne vale la pena, perché nel suo lavoro di attore Fassbender è davvero indimenticabile. Tre scene.
Nella parte dell’attivista irlandese Bobby Sands in Hunger, nel 2008, quando spiega al prete che lo visita in carcere perché sta per iniziare lo sciopero della fame: quel dialogo dura 17 minuti, pari a 28 pagine di copione, ed è stato girato in un solo take.
Poi c’è quella scena di Shame, nel 2011. No, non quella che lo ha fatto diventare ancora più attaccato alla privacy dopo mesi di battute sulla sua «superdotazione», ma quella in cui scoppia a piangere dopo una notte di sesso da cui ricava solo disperazione.
E, infine, ora c’è Edwin Epps, lo schiavista che interpreta in 12 anni schiavo, il ruolo che dopo il freschissimo Golden Globe ha portato l’attore irlandese (di origine tedesca) alla nomination ai prossimi Oscar come miglior attore non protagonista.
La nostra conversazione inizia, però, da un’altra scena indimenticabile del suo ultimo film: il cortocircuito che si legge sulla sua faccia quando gli viene chiesto di frustare la schiava di cui si è innamorato.
Che cosa pensava in quel momento?
«A tante cose insieme. È un po’ come mettere la mani dentro un barile pieno di anguille: sembrano tutte aggrovigliate tra loro, e il mio compito è tirarle fuori e mostrarle, a una a una».
Lo faccia per noi.
«Io, schiavista, non ho l’intelligenza per vivere questo amore. Non lo capisco, non è contemplato nel mio modo di pensare, eppure mi possiede in un modo assoluto. Mi sento in trappola, e allora voglio distruggere questa donna, o almeno l’amore che provo per lei. Ma a ogni colpo di frusta sento di amarla di più. Ecco, pensavo questo, e lo manifestavo anche fisicamente: il crescendo e le pause nel ritmo nelle frustate seguono le emozioni di Epps».
Epps è il male assoluto: lei ormai si è specializzato in personaggi inguardabili.
«Credo che trovare il loro lato umano sia il mio lavoro. Siamo tutti interconnessi: cerco il momento in cui anche il pubblico può riconoscersi per un attimo in uno come lui».
È un caso che Hunger, Shame e 12 anni schiavo siano tutti girati da Steve McQueen?
«No, perché Steve è un genio, ed è bravissimo a tirare fuori il meglio di me. Credo che 12 anni schiavo sia il suo capolavoro, perché è costruito su personaggi complessi che alla fine ci mostrano quali confini morali siamo disposti a oltrepassare per sopravvivere».
McQueen la paragona per grandezza a Brando, uno dei pochi duri capaci di mostrare la propria fragilità.
«È un grandissimo complimento, per me Brando è un modello assoluto, un gigante: è molto importante sapere comunicare forza e debolezza, come sapeva fare lui».
Quali sono i suoi altri miti cinematografici?
«Coppola, Lumet, Scorsese sono i registi a cui mi sono ispirato quando a 15 anni ho cominciato a pensare per la prima volta a recitare, e me li ha fatti tutti conoscere mia madre Adele, una fan del cinema fine anni Sessanta-inizio Settanta. Da lei ho preso la passione per l’arte di raccontare storie, e da mio padre il perfezionismo».
È molto legato ai suoi?
«Mi sento così fortunato a essere cresciuto con loro: mi hanno insegnato a essere una buona persona, e l’etica del lavoro negli anni in cui davo loro una mano nel ristorante di famiglia. Ora sono andati in pensione e finalmente hanno una vita: quello sì che è un lavoro massacrante».
Li vede spesso?
«Viaggiamo. Con papà e il mio migliore amico sono partito per un giro in moto pazzesco, 5 mila chilometri dall’Olanda alla Germania e all’Austria, fino a Dubrovnik, e poi da lì in Italia: Bari, Taormina, e ancora lungo la costiera amalfitana fino a Roma, Firenze e il lago di Garda. È fantastico sedersi a tavola e proseguire la cena fino all’una di notte, come fate voi italiani».
Ci pensa all’Oscar?
«Quella è una trappola in cui sono già caduto con Shame, anche se cercavo di tenere basse le aspettative prima della mancata nomination: il fatto è che quando tutti te ne parlano è difficile non pensarci. Allora preferisco concentrarmi sul lavoro: sto per girare il primo film con la mia casa di produzione, un western. E poi mi aspetta un’impresa monumentale: Macbeth».
So che lei è superstizioso: li vede i segnali del destino che la portano alla vittoria?
«No, non vedo neanche quelli. Sono solo felice e rilassato, per ora».