Ermanno Bencivenga, Il Sole 24 Ore 19/1/2014, 19 gennaio 2014
UN MONDO FATTO DI CARTA
Una fotografia scattata l’undici settembre 2001, a Manhattan, rappresenta un uomo vestito bene, con gli occhiali, immobile in piedi in mezzo a una strada semideserta, offuscata dalla polvere e sommersa da fogli di carta di ogni genere. L’uomo ne ha preso uno in mano e lo guarda senza espressione, come incredulo e affascinato da questa piccola testimonianza di una devastazione incomprensibile. È un’immagine emblematica dell’evento che, per ora almeno, ha definito il millennio in corso; e non è un’immagine casuale perché, illustra Nicholas Basbanes con dovizia di particolari in On Paper, la carta è stata non protagonista ma comprimaria essenziale della civiltà che in quell’evento ha trovato un suo tragico (a seconda delle opinioni) culmine, punto d’arresto o momento di verità. Non c’è da stupirsi allora che, quando le nuove torri di Babele sono crollate, tutto lo spazio circostante sia stato invaso, oltre che dalla polvere, da corrispondenza, memorandum e fatture.
Greci e romani, come egizi, assiri, babilonesi e fenici prima di loro, registravano e trasmettevano documenti, memorie storiche, pensieri e testi letterari su terracotta, papiro o pergamena. Furono i cinesi a inventare la carta, intorno al 100 dopo Cristo; e da loro il segreto della sua produzione passò da un lato in Corea e in Giappone e dall’altro in Arabia e, attraverso la Spagna, in Europa, arrivando in Italia nel 1235 (in Sicilia, però, un secolo prima), in Francia nel 1348, in Inghilterra nel 1494 e in Russia nel 1576, e offrendo ovunque un materiale «agile, conveniente, economico, facilmente trasportabile, semplice da fabbricare e adatto a centinaia di applicazioni diverse». Questo straordinario materiale, robusto e delicato insieme, capace di resistere a secoli di uso intensivo e di accarezzarci nelle nostre parti più intime, è frutto di uno speciale tipo di coesione molecolare noto ai chimici moderni come legame di idrogeno, in base al quale «fibre di cellulosa macerate e ammassate si uniscono l’una all’altra come se attratte da un magnete». E «la cosa stupefacente è che le fibre di cellulosa sono le uniche in natura che autoaderiscono. Se vuoi produrre del feltro o qualcosa che risulti da fibre proteiche, devi lavorarci sul serio e intrecciarle meccanicamente. Con la cellulosa, invece, appena togli l’acqua, ci sono tutti questi legami di idrogeno e, quando si asciugano, si avvicinano sempre di più».
Basbanes, che nel sottotitolo del libro si dichiara un bibliofilo, ha dedicato anni alla carta in tutte le sue manifestazioni. Ha viaggiato in Cina per incontrare famiglie che ancora la producono a mano, seguendo le antiche ricette. Ha osservato e ammirato gli artisti giapponesi, uno dei quali – Ichibei Iwano IX (il nono della serie) – è stato nominato dal ministero dell’Educazione locale un Tesoro Nazionale Vivente. Ha visitato Samarcanda, centro di smistamento sulla via della seta per il quale la carta migrò in Occidente. Ha passato del tempo a Dalton in Massachusetts, dove si stampano i dollari; a New Milford in Connecticut, dove ha sede la compagnia (Kimberly-Clark) che produce i Kleenex; agli Archivi Nazionali di College Park in Maryland, che con altri trentasei depositi analoghi ospitano dieci miliardi di pratiche federali, per un totale di ottanta miliardi di fogli; alla Folger Shakespeare Library di Washington, dove si trovano ben ottantadue prime edizioni delle opere di Shakespeare, su un totale di 232 disponibili al mondo (la Bodleian Library di Oxford ne ha una). E per ognuno di questi templi della carta racconta saporiti aneddoti, a riprova di un repertorio infinito e di un’altrettanto infinita passione. Ne citerò un paio. Il primo riguarda Mark W. Hoffmann, un falsario dello Utah che, dopo aver spacciato con successo documenti posticci relativi alle origini della Chiesa Mormone, nel 1985 creò una copia del primo testo mai stampato nelle colonie inglesi del Nordamerica, un manifesto dal titolo Oath of a Freeman realizzato nel 1639 in una cinquantina di copie ormai scomparse. Hoffmann finì con l’uccidere due persone nel tentativo di occultare i suoi misfatti e sta ora scontando l’ergastolo; ma la sua ingegnosità fu, in un senso perverso, encomiabile. Per confermare la provenienza del falso, che asseriva di aver acquistato in una libreria di New York, mostrò una ricevuta con il titolo The Oath of a Freeman per un libro che lui stesso aveva stampato con quel titolo e introdotto nella libreria; ma soprattutto, per i nostri scopi attuali, stampò il manifesto su autentica carta del diciassettesimo secolo, che aveva strappato da un libro dell’epoca trovato alla Brigham Young University. Con tali manovre riuscì a ingannare, fra gli altri, il famoso antiquario Charles Hamilton ed era sul punto di vendere il suo prodotto per un milione e mezzo di dollari; anche dopo la scoperta della frode, Hamilton la definì un’opera d’arte. Un esempio quanto mai significativo di come, davvero, la carta canti. Il secondo aneddoto è meno cruento. J. Franklin Mowery è un virtuoso della restaurazione di libri, capace di rimettere in sesto volumi tanto danneggiati e fragili che il solo prenderli in mano minaccia di frantumarli. Parte del suo lavoro consiste nel separare i libri dalle loro copertine e, quando lo fa, ha spesso la sorpresa di trovare opuscoli e trattatelli di una pagina che sono stati inseriti nel libro per rinforzarlo. Ne ha trovati in quantità talmente cospicua (circa diecimila) che nel 2009 ha organizzato una mostra in proposito, sottolineando così l’assoluta porosità fra mezzo e messaggio. Testi che erano stati stampati per il loro contenuto a un certo punto sono sembrati utili solo come oggetti materiali; riscattati da questa funzione, sono tornati a dire la loro. A rimanere costante in tutto il laborioso processo è la carta, umile compagna in un tragitto millenario, partecipante dimenticata di innumerevoli avventure, fedele depositaria di intuizioni ed esperienze, di sogni e ricordi.