Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 22/1/2014, 22 gennaio 2014
LA VERSIONE DI POPI, TRENT’ANNI DOPO
Tre vite e una sola morte, incontrata all’improvviso quando a metà degli anni 80, Giuseppe Saracino decise di sparire dal mondo. Dimettendosi da giovane “terrone” naufragato fuori rotta, da ex ascoltato leader del Movimento Studentesco milanese, da professore e in ultimo, anche da mostro. Lo chiamavano Popi e nella prima esistenza, quella indirizzata da suo padre, dannunziano di Bitonto folgorato “dall’emozione di Addis Abeba”, esule in Lombardia con una figlia a carico e lì sfidato a duello dall’amore (la nuova moglie ebrea cattolica conosciuta a un tè danzante al Diana), gli era toccato in sorte il peggio. Qualche momento di trascurabile felicità subito dopo le bombe: “Nacqui contento con tanto di casa diroccata di fronte per giocare” e poi via, in collegio, dove il Popi era stato spedito a 9 anni. “Qualcosa non aveva funzionato in famiglia” dice oggi. Chiudendo un lunghissimo silenzio personale con un libro sorprendente (La versione del Popi, Vanda.epublishing, casa editrice digitale) che tra memorie, frammenti kafkiani e scritti dal carcere sventola più dolori che rimpianti. Popi Saracino si costituì e venne arrestato nel 1980. Il processo partì nell’ottobre dello stesso anno. Sul collo, un’accusa per il più odioso dei delitti. Violenza carnale su una sua studentessa, Simonetta (i cognomi come molto altro godono del diritto all’oblio) che a casa del professor Saracino era finita “per bere qualcosa” il 28 maggio, in una Milano spettrale e profondamente turbata dall’omicidio Tobagi. Fu tragico anche l’epilogo di un episodio minore della Storia, l’incontro tra Saracino e Simonetta, culminato dopo tre giorni di tormenti e biglietti rabbiosi: “A questo serve la sua grande cultura?” in una denuncia per stupro. Cinque anni di udienze, collettivi rissosi, femministe in guerra, aule di giustizia sopraffatte da particolari morbosi, vis-à-vis tra vittima e presunto carnefice, amici, nemici, grandi firme e barricate. Il Pci ne approfittò per vendicare anni d’insuccessi e reclute in fuga dalle sezioni della Figc. Li persuadeva a mollare quello che con le parole ci sapeva fare e dietro le sbarre, finalmente, sarebbe stato costretto a tacere.
Imputato Saracino
Si alzi
Sul filo spinato, come unico imputato un “compagno”, un ex sessantottino, un cattivo maestro che avrebbe pagato fuori tempo massimo: “Un ex giovane scoppiato male che finiva come si meritava”. Quando alle 19 e 40 del 21 gennaio 1985 Popi Saracino venne definitivamente liberato da un giudice donna, pianse: “...ecco qua Saracino, la tua ultima chance. In piedi e non pensare. In nome del popolo italiano, visto questo e visto quest’altro, si dichiara l’imputato assolto con formula piena perché il fatto non costituisce reato”.
Richiesto di un commento sulla sua ex allieva fu laconico: “Penso cose che un gentiluomo non può dire”. Poi evaporò, a neanche 40 anni, lasciandosi alle spalle le discussioni fumose, il cortocircuito a sinistra, gli attacchi di Scalfari e Natalia Aspesi, la convinta difesa di Montanelli, il film di Bellocchio ispirato al suo caso (La condanna, premiato a Berlino), gli editoriali per regolare i conti, la voglia di gogna per quel figlio di un’era in cui “a forza di sostenere che fosse vietato vietare” si erano smarriti limiti, confini e frontiere da non superare. Il feroce Saracino da punire perché “chi semina vento, raccoglie tempesta” dopo la burrasca non fu più lo stesso.
Saracino ieri
Saracino oggi
Non il talento che dominava le assemblee della sua Armata Brancaleone (“un gruppo poco compatto e tantomeno allineato di compagni universitari” a dar retta al ricordo di Anna Foà nel Gossip online sul sito del libro): “Si parla per ultimi. Prima bisogna far sfogare tutti i cazzoni, poi, quando le stronzate del tipo “la base che non parla mai” e “la crisi del movimento” sono finite, si alza il ditino e gli si spiega che cazzo bisogna fare” né il retore che nasconde la ferita e riguarda al “buiolo” e al suo ruolo da capro espiatorio con relativa leggerezza: “Ormai purtroppo non c’era più niente da riparare. Avevo avuto i miei incubi, questo sì: tipo Uomini e topi per intenderci, se tutti ti accusano di essere un mostro, qualche dubbio ti viene”. Ma un’altra persona. Che guarda alla fantasia al potere con analitico disincanto: “In Francia De Gaulle aveva già chiarito che la ricreazione era finita... a novembre era morto Annarumma... Lotta Continua era uscita di testa e titolava: “La violenza riapre tutto”. Infatti arrivarono le bombe in piazza Fontana, a 10 metri da via Larga, dove era morto l’agente”. E alle occasioni svanite, riserva una nostalgia non retorica. Per usare le parole di Monica Maimone e Antonello Nociti (ancora nel Gossip), Saracino era un tipo che non si “commiserava”, un prisma indefinibile di curiosità: “Era stato maoista, guevarista, mickjaggerista, persino simpatizzante della reaganomics”, uno che “si innamorava sempre e ostinatamente con gli occhi suoi, e mai e poi mai con quelli degli altri”, uno che era rimasto al primato del dubbio sulla certezza, rifiutava di servire l’ideologia e con i suoi “cani sciolti” aveva già minato alle radici la rigida disciplina dei marxisti-leninisti. Quando uscì, dopo 60 mesi di limbo equamente condiviso con l’inferno, non trovò paradisi ad attenderlo: “ mio amico – scrive Nociti – tornò a vivere all’aria libera e si trovò in un mondo nel quale parlare del ‘68 e delle lotte operaie e studentesche, era alla moda come ricordare le carrozzelle coi cavalli o poesie di Giosuè Carducci”. Così si reinventò con successo nell’urbanistica, ridisegnando le periferie degradate, senza moralismi né fondamenta stabili. E ora architetto della sua biografia. Lampi accelerazioni, frenate, divagazioni. Un risarcimento. Un fine pena mai. Così ne La versione del Popi passano il detenuto per caso Giuliano Pisapia o il La Russa” che alla Statale “comandava il plotone assalitore” che per poco non rese Saracino orbo, ma come in un esorcismo rovesciato, professore che in giudizio fu trascinato non viene mai, neanche per un istante, la tentazione di vedere il film dell’esistenza sua con le lenti del pregiudizio: “I debiti è meglio pagarli che averli”. Saracino, da ultimo della fila, ha scontato anche quelli di una generazione. Quando decise di lasciare la scuola, terrorizzati dalle implicazioni, gli porsero un foglio da firmare: “L’amministrazione mi chiese di chiarire che lo facevo per motivi personali, non ebbi difficoltà a dichiarare il vero”. È la frase finale del libro. La versione del Popi. L’ultima, prima dell’immersione definitiva.