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 2014  gennaio 22 Mercoledì calendario

AVEVO IN MANO L’ITALIA, PROVENZANO MI HA DELUSO


Ci sono molte tracce dei misteri e dei segreti custoditi dal Capo Corleonese, nelle chiacchiere quotidiane di Totò Riina con il malavitoso pugliese Alberto Lorusso. Dalle stragi del 1992-93 alla presunta trattativa con lo Stato (di cui lui stesso sarebbe stato prima soggetto e poi oggetto, secondo l’ipotesi dell’accusa); dai rapporti tra Riina e Provenzano, fino alle «relazioni pericolose» di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con uomini di Cosa nostra. E ci sono le manie di grandezza del «capo dei capi», che davanti al piccolo boss Lorusso esclama: «Io sempre contro la legge sono! Io sono nato contrario e ci sono contrario... Ne dovrebbero nascere mille l’anno come Totò Riina, mille l’anno». Uno che i propri nemici «li ho cercati e li ho trovati!... Cosa voglio di più dalla giustizia se la giustizia me la sono fatta io?... La giustizia io l’ho fatta, io l’ho fatta la giustizia giusta».
Su Bernardo Provenzano, l’altro padrino corleonese arrestato nel 2006 dopo oltre quarant’anni di latitanza, il boss rinchiuso in cella dal ’93 avanza strani sospetti: «Ha fatto queste stragi di Stato... disonesta mia madre!... Ci ha pensato lui...», dice nel colloquio del 4 agosto scorso. E ancora: «Totò Riina aveva il Paese nelle mani, comandavo io per trent’anni, quarant’anni, ed erano convinti, vivevano come cristiani. Quello non ha capito niente, Binnu».
Finché nell’ora d’aria del 18 agosto, Riina sembra quasi prendere le distanze da chi decise — dopo la sua cattura, nel 1993 — di fare nuove stragi sul continente: prima a Firenze, poi a Roma e a Milano. Quasi imputasse a suo cognato, Leoluca Bagarella, di aver obbedito a un ordine di Provenzano: «Hai fatto quello che ti ha detto lui, “te ne devi andare fuori a farli”... e se n’è andato a Firenze... Gli ho detto: Che ci vai a fare a Firenze, a Firenze ci devi mandare a lui, a Binnu Provenzano... (...) Binnu Provenzano è cresciuto nelle mie mani, è cresciuto con me, perciò poteva essere un personaggio come me, purtroppo...».
Poi i fratelli Graviano, capimafia del quartiere palermitano di Brancaccio che — dice Riina in un’altra conversazione — «avevano Berlusconi». E commenta: «I Graviano per me non contano, non ha mai contato né contano... Devi dirigere a me che me ne devo andare a Firenze? Io me ne vado nella piazza di Palermo, incomincio a cercare chi di dovere!». Poi, tornando a parlare delle stragi: «Se io sono siciliano, perché li devo andare a fare fuori dalla Sicilia?».
Sulla trattativa con lo Stato ci sono accenni spezzettati, che possono fornire spunti a interpretazioni diverse. Dell’ex ministro Nicola Mancino, imputato nel processo per falsa testimonianza, il boss dice durante la passeggiata in cortile del 12 agosto: «Ma che vogliono sperimentare che questo... Mancino trattava, trattò con me, così... loro vorrebbero, così vorrebbero..., ma se questo non è avvenuto mai... questo!». Il compagno d’aria Lorusso sembra stimolare Riina, gli dice che «il processo lo mantengono con gli stuzzicadenti», e il capomafia se la prende con l’imputato-testimone Massimo Ciancimino, quello che «io, mio padre, il colonnello Mori convincemmo a Provenzano a fare arrestare Riina. Ma santo cielo... tu, tu Ciancimino... sei un folle di catene... Se dici tu e tuo padre... ma che ci mettete a Provenzano...!!».
Sono parole (genuine o pronunciate appositamente per essere veicolate) che a volte sembrano sconnesse, frammenti di frasi spesso di difficile comprensione, sebbene suggeriscano a volte accostamenti suggestivi. Come quando, sempre a proposto delle stragi, Riina dice: «La cosa si fermò... tre-quattro mesi... ma non è che si è fermata... comunque il...(parole incomprensibili)... io l’appunto gliel’ho lasciato». A che cosa si riferisce il boss? Per caso sta parlando del famoso «papello» con le richieste avanzate alle istituzioni per fermare le bombe? Non si sa, e quello che Riina aggiunge subito dopo non aiuta a capire: «Però di questo Binnu ne hanno fatto una marionetta con Luigi. Volevano sapere se tu era il responsabile... tu con lui... chi era il sostituto». Più avanti il Corleonese ribadisce: «Non si può dire fui un... non avete lasciato un appunto, non avete lasciato niente. Io ho lasciato, lasciai...».
Il ricatto allo Stato si può intravedere anche in un altro passaggio, quando Riina rivendica per l’ennesima volta la guerra allo Stato: «Io ero troppo sveglio, sono troppo sveglio, so come provvedere... La svegliatezza mia è una cosa, è un fenomeno... è una materia che tutti non la possono avere. Sono sveglio e sono capace... Io al governo... morti gli devo vendere, al governo morti gli devo dare».
Di Silvio Berlusconi il boss di Corleone ricorda che ha assunto Vittorio Mangano, poi condannato per mafia: «Un bravo picciotto che si è ammalato ed è morto». E a proposito dei «guai» di Berlusconi causati da quel rapporto con Mangano aggiunge: «Se lo merita, se lo merita... Gli direi io “ma perché ti sei andato a prendere lo stalliere? Perché te lo sei messo dentro?”».
La mattina del 6 agosto Lorusso fa un lungo discorso sulla condanna per mafia dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, e commenta che è pericolosa anche per Berlusconi, il quale rischierebbe addirittura la confisca dei beni. La reazione di Riina alla lunga dissertazione del pugliese, è secca; come se volesse interrompere il discorso: «Come finisce poi si vede».
Gio.Bia.