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 2014  gennaio 22 Mercoledì calendario

IO CON L’AUTO CONTRO L’ELISEO PER SALVARE IL NOSTRO ARLECCHINO


Sa di averla combinata grossa. Ma, da buon rivoluzionario, Attilio Maggiulli, in fondo in fondo, si autoassolve. Sì, è stato lui la mattina di Santo Stefano, a cercare di sfondare con la sua auto il cancello dell’Eliseo, la residenza di François Hollande, il presidente della Repubblica francese. È vero, ha fatto una pazzia. Ma l’ha fatto per la Causa.
La causa della Comédie Italienne, l’unico teatro italiano in Francia. Il tempio parigino di Carlo Goldoni e dei grandi drammaturghi italiani. Da quarant’anni. È la causa nella quale hanno creduto Paolo Grassi e Giorgio Strehler, Italo Calvino e Giovanni Arpino, «senza dimenticare Alberto Moravia e Alberto Cavallari» prega lui, perché tutti loro l’hanno sostenuto in ogni modo.
Ma non ci sono più. Ed è arrivata la crisi, sono cominciati i tagli dei finanziamenti alla cultura. Anche in Francia. Anno dopo anno, i sussidi statali e comunali si sono assottigliati: dai 65 mila euro del 2009 ai 15 mila dell’anno scorso. «Troppo pochi, per pagare dieci attori sulla scena». In compenso si sono moltiplicate le promesse. Vane. Le attese. Inutili. Le anticamere. Deludenti. Così questo Arlecchino senza padroni e senza padrini, a Natale ha perso la pazienza e «ho fatto quel che ho fatto». Gli è costato quattro settimane di ospedale psichiatrico, «senza averne alcun bisogno — mormora, tornato al suo teatro, in rue de la Gaîté, da appena 48 ore —. Una libera uscita prolungata».
I medici, ma probabilmente anche il suo avvocato, gli hanno proibito di riparlarne, come gli ricorda dolcemente ansiosa Hélène Lestrade, prima attrice e compagna di vita di Attilio. E lui, che è un ribelle, s’innervosisce perché sa bene quel che ha fatto, perché e per chi: «In fin dei conti è stata come una parolaccia. Tutto qui. A un certo punto uno non ne può più, esplode e dice una parolaccia. Ne disse una anche mia nonna, quando fui espulso dal collegio».
Il 14 gennaio scorso, l’ex ministro della Cultura, Frédéric Mitterand, ha incominciato un’intervista radiofonica, su France Inter, a Toni Servillo, chiedendo pubblicamente scusa ad Attilio Maggiulli, per non averlo sostenuto a suo tempo: «Lacrime di coccodrillo. Due o tre anni fa diceva che la sovvenzione sarebbe stata mantenuta. E invece...», alza le spalle il regista, ma si capisce che quel mea culpa lo ha gratificato. Perché è stato ufficialmente riconosciuto che non è un pazzo, ma giustamente esasperato: «Diamine, c’è stato in Francia un Enrico IV, che sarà stato anche un donnaiolo e abbastanza cinico da considerare che Parigi val bene una messa. Però dava una pensione agli attori italiani pur di non perderli».
Maggiulli è rimasto solo a difendere le cento poltrone rosse della sua sala, nata a Montparnasse dalla bizzarra fusione tra un commissariato di polizia e un negozio di biancheria intima femminile: «Là in fondo Samuel Beckett si metteva a studiare i segreti della commedia dell’arte». Impossibile sintetizzare tanta storia nell’appello affisso nell’atrio, ingombro di maschere piumate simili a rapaci: «Arlecchino non deve morire — si legge —. Scagliare la propria auto contro i cancelli dell’Eliseo è stato un gesto disperato per abbattere il muro del silenzio e rifiutare una morte inevitabile». Dopo il quale, il ministero della Cultura francese ha convocato Attilio ed Hélène: «Ci hanno dato un po’ di consigli». Quelli non gravano sul bilancio.
«Non voglio chiedere nulla al governo italiano. Preferisco che usino i soldi per riparare Pompei» tuona Attilio sotto lo sguardo di Hélène. Che disapprova timidamente: «Pompei è morta».
A dire il vero potrebbe accettare aiuti dagli italiani, anche se vive da 40 anni in Francia, però mai mendicarli: «Vorrei poter dire che questo teatro ha un futuro. Chi fa più Arlecchino? Io qui lo faccio e lo insegno! Ma per la prima volta mi sono preso una pausa di riflessione. Devo decidere se fermarmi o andare avanti. Resta il vissuto. Quanto ci siamo divertiti, vero Hélène?».
Come quella volta, 40 anni fa, che c’erano Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Michel Piccoli e Philippe Noiret dalle parti di Montparnasse, a recitare ne «La grande abbuffata»: «Marcello cacciava i giornalisti che volevano intervistare il latin lover: andate da Maggiulli, strillava, lui sì che ha qualcosa da raccontarvi. Tognazzi, a richiesta di Mastroianni, si produceva in trenta tipi di pernacchie diverse — ride ancora il regista italiano —. Diceva: tutta la commedia italiana è nella pernacchia. Per essere quello che siamo bisogna essere passati attraverso la fame e le pernacchie che ci tiravano il pubblico dell’avanspettacolo». Stavolta una pernacchia l’ha tirata lui. Arlecchino vegli perché non gli costi troppo.
Elisabetta Rosaspina