la Repubblica 22/1/2014, 22 gennaio 2014
MA C’È UN ALTRO MODELLO SPAGNOLO
C’È UNA ragione strategica e una tattica per cui è giusto in questo momento concentrare l’attenzione sulla riforma del sistema elettorale.
Quella strategica è che la legge elettorale è fondamentale per assicurare un governo al paese in grado di decidere e non solo di procedere di rinvio in rinvio, aumentando l’incertezza di famiglie e imprese. Quella tattica, immediata, è che senza una nuova legge elettorale non è oggi possibile esercitare pressione su questo governo che, come provano 40 interventi legislativi non risolutivi sull’Imu in sei mesi, riesce solo a procedere di rinvio in rinvio, aumentando l’incertezza di famiglie e imprese.
Ma c’è un altro modello spagnolo, oltre a quello elettorale, cui dovremmo guardare con una certa attenzione. Si tratta del nuovo assetto delle relazioni industriali introdotto con la riforma dell’agosto 2012. Si sta rivelando fondamentale nel migliorare le condizioni di competitività delle imprese spagnole, stimolando la ripresa e attraendo investitori esteri. Un fatto di cui si sono accorti tanto il Fondo Monetario, che ha recentemente rivisto al rialzo le stime sulla crescita spagnola nel 2014, e al ribasso quelle dell’Italia, che i mercati, che hanno riportato lo spread dei bonos decennali rispetto ai bund tedeschi al di sotto di quello dell’Italia. Secondo l’Ocse questa riforma ha contribuito ad abbassare il costo del lavoro per unità di prodotto della Spagna di almeno due punti in un solo anno, proprio mentre da noi aumentava di quasi 5 punti, facendo dilatare il nostro divario di competitività con gli altri paesi dell’area Euro.
In cosa consiste la riforma spagnola? Sancisce che laddove si tiene contrattazione a livello di impresa, quanto pattuito in questi contratti collettivi prevale su quanto pattuito nella contrattazione nazionale. È un principio importante perché permette di gestire crisi aziendali senza rendere inevitabile la strada dei licenziamenti. Spagna e Italia sono i due paesi in cui, secondo le indagini della Banca Centrale Europea, c’è la percentuale più bassa di imprese che, durante la crisi del 2008-9, ha ridotto i salari anziché procedere a licenziamenti. Ora in Spagna questo è possibile, mentre da noi continua a non esserlo, se non attivando strumenti ad hoc, come i contratti di solidarietà, che implicano riduzioni d’orario anziché stabilire un rapporto fra salari e produttività. E le poche imprese che da noi aggiustano i salari, anziché tagliare il personale, lo fanno congelando gli incrementi retributivi in termini nominali, un’arma spuntata in periodi di inflazione molto bassa o addirittura negativa, come quelli che stiamo attraversando. Al di là della salvaguardia dei posti di lavoro, questo cambiamento nelle regole della contrattazione in Spagna ha dato un messaggio forte e chiaro agli investitori stranieri: potete venire da noi contrattando nella vostra azienda le condizioni retributive in base alle vostre esigenze produttive, senza dover necessariamente sottostare ad accordi decisi da altri senza tenere in considerazione la vostra specifica organizzazione produttiva.
L’Istat ha nell’ultima settimana e ancora ieri rilasciato dati sulle nostre esportazioni e sugli ordini dall’estero preoccupanti perché segnalano che l’attesa spinta che dovrebbe venire alla nostra economia dalla domanda estera sarà più debole del previsto. Per sostenere le nostre esportazioni, il governo avrebbe dovuto procedere con un taglio deciso del cuneo fiscale, come quello annunciato da Hollande la scorsa settimana. Non ha voluto farlo. Può ora almeno reagire all’accordo sulla rappresentanza sottoscritto il 10 gennaio scorso da sindacati e accordi di categoria, invece di far finta di nulla. È un accordo importante perché permette di avere rappresentanti eletti dai lavoratori in ogni impresa, come soggetti negoziali in grado di prendersi impegni cogenti con il datore di lavoro in ciascuna azienda. Impedisce anche che sia il datore di lavoro a scegliere gli interlocutori con cui trattare, come successo a Pomigliano e al Lingotto. Si può a questo punto sancire che gli accordi sottoscritti da questi rappresentanti, democraticamente eletti da tutti i lavoratori, prevarranno su quelli presi a livello superiore. Contestualmente sarebbe opportuno introdurre un salario minimo orario che tuteli i lavoratori che hanno minore potere negoziale e che non sono coperti da alcun livello di contrattazione.
Due anni fa, nel mezzo dell’estate, il governo Berlusconi ha introdotto per decreto una norma (l’articolo 8 della legge 148, 2011) che permette ai contratti collettivi di derogare alle leggi dello Stato su tutto tranne che sui salari. Questa norma è stata utilizzata da alcuni accordi aziendali per rinviare l’entrata in vigore della legge 92 2012. Ma un contratto collettivo non dovrebbe mai derogare a leggi dello Stato. È come se in materia di diritto familiare la legge vietasse il divorzio, ma al tempo stesso concedesse ai coniugi il diritto di divorziare con un semplice accordo tra le parti. L’articolo 8, se applicato in modo esteso, rischia di ingolfare ulteriormente i tribunali con contenziosi interminabili: è molto probabile, ad esempio, che un singolo lavoratore che si trovasse coinvolto in un licenziamento previsto da un accordo aziendale, impugnerebbe il licenziamento facendo valere la legge dello Stato. Bene allora cancellare quell’articolo e ripristinare, nella legge sulla rappresentanza che dovrà seguire all’accordo del 10 gennaio, una gerarchia di ordinamenti ben diversa.
Al primo posto dovrebbe esserci una normativa superiore, una legge dello Stato, che garantisca dei diritti minimi e fondamentali, compreso quello a un salario minimo orario, che devono valere per tutti i lavoratori, indipendentemente dall’esistenza di un contratto di lavoro nazionale o aziendale. Poi il contratto aziendale che fissi livelli retributivi e organizzazione del lavoro, negoziando su orari di lavoro, livelli occupazionali e salari al tempo stesso, un modo molto più efficiente di fare contrattazione di quanto consentito a livello nazionale, dove si può trattare solo di salari. Al terzo posto ci sarebbe il contratto nazionale che definirebbe regole (anziché livelli retributivi assoluti) che leghino salari e produttività, ovviamente al di sopra del salario minimo, per tutte le aziende in cui non si fa contrattazione aziendale o territoriale. La strada del decentramento della contrattazione è quella verso cui si sono mosse, oltre alla Spagna, Finlandia, Francia, Danimarca e Svezia negli ultimi anni. Bene imboccarla anche noi e farlo sapere a chi sta valutando se investire nel nostro paese.